Abolire il Jobs Act? Roba vecchia. “Oggi l’azienda pensa a chi parte, non a chi resta” – .

Abolire il Jobs Act? Roba vecchia. “Oggi l’azienda pensa a chi parte, non a chi resta” – .
Abolire il Jobs Act? Roba vecchia. “Oggi l’azienda pensa a chi parte, non a chi resta” – .

Abolire il Jobs Act? Non servirà a molto. Si tratta, dice l’annuncio HuffPost Francesco Seghezzi – presidente di Adapt, il centro studi fondato da Marco Biagi -, di una riforma in parte già smantellata tra riforme e sentenze della Consulta. “In dieci anni il mondo del lavoro è cambiato profondamente”. Negli ultimi anni, le dimissioni volontarie hanno dominato il mercato, e non tanto i licenziamenti. Ecco perché ridurre i margini di licenziamento da parte delle imprese – come vorrebbe la CGIL presentando quattro richieste referendarie in tal senso – non è altro che “un’operazione politica iconica”, lontana dalla realtà: “Oggi – è il ragionamento dell’esperto – per le aziende la paura principale non è il lavoratore che resta, ma quello che se ne va”.

Questo spiega perché negli ultimi mesi l’occupazione ha raggiunto livelli record e, in particolare, sono in crescita i contratti a tempo indeterminato: solo nell’ultimo trimestre del 2023, questo è il dato che emerge consultando il sistema informativo dedicato del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, si è registrato un aumento di ben centomila contratti a tempo indeterminato rispetto allo stesso periodo del 2022. Numeri che, esperti e istituti di ricerca, descrivono una dinamica ormai strutturale: in Italia sono centinaia i posti vacanti – come abbiamo spesso scritto – per le quali i datori di lavoro non riescono a trovare lavoratori con le competenze necessarie. Ecco perché le aziende mantengono quelli che già hanno, assicurandoli con contratti stabili. “Un grosso problema del mercato del lavoro è che mancano politiche attive adeguate – spiega Seghezzi – e questo è un problema che non è stato risolto dal Jobs Act, non è stato risolto con l’introduzione del Reddito di Cittadinanza e non è stato risolto stato risolto con la recente eliminazione di quest’ultimo”. La vera riforma sarebbe quella in grado di formare i lavoratori per consentire un incontro più efficace tra domanda e offerta di lavoro.

In questa fotografia del mercato del lavoro consegnataci dall’Istat e da esperti come Maurizio Del Conte, emerge la raccolta firme lanciata il mese scorso dalla Cgil di Maurizio Landini, e sostenuta nei giorni scorsi anche dalla segretaria del Pd, Elly Schlein. Un’iniziativa referendaria che, in sostanza, tra i quattro quesiti per i quali è stata avviata la raccolta firme, propone l’abolizione del famoso ‘contratto di tutele crescenti’ introdotto dal Jobs Act voluto nel 2015 dal governo di Matteo Renzi. Una norma che, in parole povere, prevede la possibilità per le aziende di non dover reintegrare sul posto di lavoro il dipendente licenziato senza giusta causa: al posto della reintegrazione è stato introdotto un indennizzo con durata e portata variabile da caso a caso. base.

All’epoca furono alzate barricate, soprattutto da parte della Cgil, contro la riforma del lavoro del Pd, con il timore che questa provocasse un boom di licenziamenti, tutti a favore delle aziende. I numeri Istat, però, dicono il contrario. Se nel 2014 in Italia erano 647mila le persone che avevano lasciato il lavoro, tre anni dopo, al termine del governo renziano, il numero delle uscite si è stabilizzato a 579mila. E andando più nello specifico, la tendenza dominante nel mercato del lavoro dell’attuale decennio era già avvertibile all’epoca: se dei 647mila licenziamenti del 2014 il 48% erano dimissioni volontarie, tre anni dopo queste sono salite al 53%. Viceversa, prima dell’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi, i licenziamenti decisi dalle aziende erano il 42%. Con le sue dimissioni, in seguito alla sconfitta del referendum costituzionale, i licenziamenti ammontano ad appena il 36% del totale.

Tutt’altro discorso, ovviamente, per le forme di precarietà, vecchie e nuove, che il Jobs Act non ha affatto risolto. Ma questi numeri dicono chiaramente che l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non ha portato a un boom di licenziamenti come lamentarono allora i sindacati e come fanno, presentando, ancora oggi, quattro quesiti referendari anti-Jobs Act: “Quello della Cgil è un’iniziativa iconico-politica” sostiene il presidente di Adapt, Seghezzi. Il decreto Dignità del governo Conte e una serie di sentenze della Corte Costituzionale hanno già parzialmente ridotto la portata del Jobs Act, rendendo più difficile per le aziende licenziare. “Il ritorno dell’articolo 18? Con un tasso di dimissioni in costante crescita, è una battaglia di scarso impatto. Senza considerare che la sua abolizione non è retroattiva, cioè non si applica a tutti i rapporti di lavoro creati prima della riforma del 2015”. La Cgil, conclude l’esperto, si è mossa in questa direzione solo per fini politici: “Per dettare l’agenda sul lavoro alle forze del centrosinistra”, e infatti Schlein e Giuseppe Conte del M5s hanno subito seguito l’esempio.

 
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