un successo che ha confermato le infallibili intuizioni di Spielberg e Lucas – .

un successo che ha confermato le infallibili intuizioni di Spielberg e Lucas – .
un successo che ha confermato le infallibili intuizioni di Spielberg e Lucas – .

DiFilippo Mazzarella

Le imprese dell’archeologo interpretato da Harrison Ford si sono subito imposte nell’immaginario collettivo

Uscì nelle sale americane il 23 maggio 1984 (qui arrivò dopo l’estate, il 27 settembre)”Indiana Jones e il tempio maledetto/ Indiana Jones e il tempio maledetto”, attesissimo seguito di “I predatori dell’arca perduta”, successo mondiale (a sorpresa) del 1981 che confermò l’infallibilità di massa delle intuizioni di Steven Spielberg (e il suo partner-rivale Giorgio Lucascoautore dell’argomento).

Quarant’anni fa il cinema era ancora capace di questo rilanciare il presente rielaborando il passato e creare nuovi personaggi mitici: e le gesta (ispirate anche alla produzione “cliffhanger” di mezzo secolo prima) dell’archeologo Henry Jones Jr. detto “Indiana”, uno spericolato avventuriero diviso tra la relativa quiete dell’insegnamento universitario e la frenesia delle sue imprese ai quattro angoli del globo, hanno saputo imporsi immediatamente nell’immaginario collettivo grazie anche all’iconica caratterizzazione di Harrison Ford, che ha consolidato il suo ruolo di star mentre il trauma del destino del “ibernato” Han Solo nel secondo capitolo della saga di “Star Wars” (“L’Impero colpisce ancora/L’Impero colpisce ancora”, 1980).

Inizialmente rifiutato da Tom Selleck (delirante convinto che per la sua carriera sarebbe stato molto più importante e proficuo non abbandonare la serie televisiva “Magnum PI”), il ruolo di Indiana Jones sarebbe poi diventato un punto fermo nella straordinaria filmografia dell’attore, tanto da essere reinterpretato altre tre volte (nel 1989, nel 2008 e infine, fuori tempo massimo, nel 2023): e per la seconda delle sue incursioni cinematografiche, Lucas e Spielberg hanno deciso di precedere gli eventi di un anno rispetto al prototipo, così realizzando quella narrata nel film come la prima delle avventure della pentalogia.

Nell’incipit di “Indiana Jones e il tempio maledetto”, l’eroe si ritrova in una discoteca di Shanghai, l’Obi-Wan (un nuovo occhiolino di Spielberg alla saga di “Star Wars” dopo l’effigie dei famosi droidi R2- D2 e C-3PO (visibili fugacemente tra i fregi del “pozzo delle anime” nel primo film), dove sopravvive ad un avvelenamento durante una missione andata male per recuperare un antico manufatto; e si ritrova a dover scappare dal suo giovane aiutante orfano cinese “Short Round” (Ke Huy Quam) e dal cantante Willie Scott (Kate Capshaw) su un aereo cargo.

Poiché il velivolo è di proprietà anche del suo cliente/rivale Lao Che (Roy Chiao), i tre vengono abbandonati dai piloti che ne organizzano lo schianto sull’Himalaya: ma dopo un surreale e riuscito tentativo di salvataggio a bordo di un gommone (sic!) si ritrovano accolti in un villaggio indiano ridotto in estrema povertà. Gli abitanti, che identificano Indiana Jones nel salvatore promesso loro dal dio Shiva, gli chiedono aiuto per recuperare una pietra sacra rubata dal loro santuario, ma soprattutto per scoprire quale sarà la sorte dei loro figli, rapiti e segregati in il vicino palazzo di Pankot.

Qui Indy, Wille e Short Round vengono accolti cordialmente dal giovane mahrajah, i cui funzionari respingono categoricamente l’ipotesi avanzata dall’archeologo secondo cui il culto Thuggee sarebbe responsabile della rovina del villaggio; ma presto la verità viene rivelata. Dopo essere sopravvissuto a un tentativo di omicidio, Indiana Jones scopre l’esistenza di un tempio nascosto dove l’antica setta guidata dal sommo sacerdote Mola Ram (Amrish Puri) pratica sacrifici umani e utilizza i bambini come schiavi nelle miniere sotterranee per recuperare gli ultimi due dei cinque magici “pietre di Sankara”, donate dagli dei all’umanità per combattere il Male, ma che nelle mani di Mola Ram finirebbero per conferirgli un potere illimitato.

Corrotto temporaneamente dalla magia nera del culto, Indiana Jones riuscirà poi a liberarsi dall’incantesimo con l’aiuto di Short Round, oltre a recuperare rocambolicamente la pietra e a liberare i piccoli schiavi. Willard Huyck e Gloria Katz hanno firmato la schematica sceneggiatura del film, subentrando niente meno che a Lawrence Kasdan che ha curato la stesura molto più efficace del primo, rispetto al quale questo episodio appare più cupo e terrificante (ma inevitabilmente meno strutturato) e nonostante questo in qualche misura rivolto ad un pubblico ancora più giovane (come dimostra inequivocabilmente l’idea non proprio vincente di far fungere da “spalla” del protagonista il simpatico bambino cinese).

Spielberg, probabilmente consapevole di questa “debolezza”, però, ingrana la quinta marcia fin dai primi minuti: e se la sequenza azione/musicale iniziale sulle note di una versione surreale cantata in mandarino di “Anything Goes” di Cole Porter è ancora una delle il più bello mai realizzato per la saga, anche il resto non si dimentica facilmente: dal banchetto “horror” a corte con piatti da rivoltare lo stomaco al giro “montagne russe” sui carri minerari (un concetto quasi videoludico in un’epoca in cui i computer i giochi tecnologici non consentivano ancora quei ritmi e quella “visualità” e di fatto poi depredati dall’intera industria videoludica, da Donkey Kong in giù);

Il risultato, ineguagliabile a quello del prototipo (che invece riuscirà nel successivo “Indiana Jones e l’ultima crociata”, 1989, dove un monumentale Sean Connery incarnerà il padre di Indy rivelando al mondo l’origine del suo soprannome…), resta , quarant’anni dopo, tanto controverso quanto lo era al momento della sua uscita. Tutto è al suo posto (compresa la famosa marcia di John Williams), e le aspettative non vengono minimamente tradite (c’è anche una memorabile gag che ribalta assurdamente una famosissima del primo film: quella in cui Indy cerca, questa volta senza trovarla, la pistola per uccidere un aggressore); ma critici e appassionati avevano più di un dubbio.

Sul personaggio di Willie (interpretato da Kate Capshaw, poi seconda moglie di Spielberg), innanzitutto, che era in netto contrasto con lo sfrontato orgoglio di Marion Ravenwood nel primo film e le cui continue lusinghe e lamentele avrebbero dovuto aggiungere toni umoristici che sono rimasti su carta ; e anche su quello di Short Round (interpretato da Ke Huy Quan, che in occasione del suo recente premio Oscar per “Tutto e tutto in una volta” di Daniel Kwan e Daniel Scheinert non ha mai menzionato Spielberg nel suo lungo discorso di ringraziamento all’Accademia…) che avrebbe dovuto conferire una dimensione paterna al personaggio di Indiana Jones che poi è stata clamorosamente mancata in favore di un approccio più infantile.

E sebbene “Indiana Jones e il tempio maledetto” sia, come già detto, notevolmente più “oscuro” del suo predecessore, temi come la schiavitù e la corruzione del potere (contrapposti nell’oscurità a quelli più evidenti della redenzione e del trionfo del bene) sul male) o l’idea che il vero eroismo risieda nell’altruismo e nella compassione finiscono per perdersi nella meccanica tonitruenza di un intrattenimento troppo bello di per sé per essere ascritto alle migliori pagine della carriera registica di Spielberg.

Ebbe ovviamente un ottimo successo di pubblico, anche se gli incassi globali complessivi furono decisamente inferiori a quelli de “I predatori dell’arca perduta”: ma alla fine resta (nonostante alcuni ambienti nobiliari) uno dei rarissimi incidenti veri di percorso di quello che a tutti gli effetti è forse il più grande cineasta americano della modernità.

23 maggio 2024 (modificato il 23 maggio 2024 | 22:31)

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