L’amore. Recensione del film di Gilles Lellouche – .

Un bombardamento di colori, suoni, parole, immagini, sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Urla troppo, ma ha la generosità impetuosa di un cinema che non vorresti più fermare. CANNES77. Concorrenza.

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In una scatola portaoggetti c’è una cassetta. Ci sono solo le iniziali, J&C. Sono Jacke e Clotaire. C’è già una raccolta della loro vita lì. Tutte le canzoni, i ricordi, l’amore erano rimasti lì dentro. Ha il tono di un film per adolescenti americano e deraglia verso un cinema poliziesco con le fiamme sullo sfondo Casinò di Martin Scorsese, Non si ferma davanti a nulla Gilles Lellouche, l’attore francese al suo quarto film (ma il secondo diretto da solo) che aveva sorpreso positivamente con il precedente 7 uomini in ammollo. E, come in quel film, anche in L’amore sceglie di restare solo dietro la macchina da presa perché vuole dedicarsi anima e corpo agli attori, ovvero recitare con loro senza mai essere inquadrato.

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Tutta la storia può iniziare – o ripartire – da un singolo oggetto. Avanti e indietro. Senza soluzione di continuità. Jackie e Clotaire sono cresciuti insieme da adolescenti in un piccolo villaggio della Francia negli anni ’80. Poi il destino li ha divisi. Jackie ha una nuova vita e sembra essere felice. Clotario è appena uscito di prigione. Ma anche anni dopo, non possono più fare a meno l’uno dell’altro. Così le loro strade si incrociano nuovamente.

L’amore è un film sull’orlo dell’esaurimento nervoso, un bombardamento di colori, suoni, parole a partire dalle immagini del fumo delle fabbriche in sottofondo, dello sciopero dei portuali contro la privatizzazione (un Jacques Demy senza musica) e delle azioni criminali di una vendetta spietata del protagonista anticipata in un altro scorcio da Scorsese in chiesa con Clotario che guarda dall’alto il boss interpretato da Benoît Poelvoorde, tanto umano in una caricatura quanto ‘la tragedia di un uomo ridicolo’.

Lellouche ricerca uno stile sempre inadeguato rispetto a ciò che vuole mostrare. Consapevole di questo limite lo cambia al volo, accelera per non perdere tutta la passione che ha messo nella sceneggiatura scritta insieme ad Ahmed Hamidi (con il quale aveva già collaborato in 7 uomini in ammollo) e Audrey Diwan. Nella sua folle corsa, inciampa, si rialza e trova nella scena dell’incontro tra Jackie e Jeffrey, interpretato da Vincent Lacoste, il suo futuro marito, una sequenza vertiginosa iniziata in un ufficio di noleggio auto e proseguita sotto la pioggia con lui. invitandola a salire sulla sua macchina dopo averla licenziata. Anche i destini incrociati sono ingombranti, forzati ma genuini, spontanei, pieni di vita. Adèle Exarchopoulos è travolgente. In ogni scatto, davanti allo specchio, nella parte frontale dello scatto mentre il marito fa la doccia, nell’abbraccio con il padre incarnato dal bravissimo Alain Chabat, racconta ogni volta tutta la sua vita. François Civil è pura fisicità e rabbia. Vorrebbe distruggere tutto, ignaro dei rischi di rovinare il film, nel suo ritmo vigilante ma anche alla ricerca di un semplice, breve attimo di conforto che trova in una madre modesta ma piena di luce come Élodie Bouchez. Il lavoro sugli attori – e con gli attori – è impressionante. Nel corso di due decenni c’è una continuità assolutamente credibile nei corpi di Jackie e Clotaire e, in questo senso, colpisce anche la convincente interpretazione di Mallory Wanecque e Malik Frikah. L’amore brucia tutto quello che ha davanti, può rischiare anche di bruciarsi, ma non gli importa. Ha la follia e l’incoscienza (la parola ‘ouf’ del titolo si può anche ricomporre in ‘fou’) di un esordiente o di un cineasta che decide di rischiare tutto. Schiaffi, pugni, pugni in faccia ma anche la spilla dei Cure sulla giacca e le tentazioni di un musical con l’illusione di una danza collettiva alle spalle dei due protagonisti. Inoltre ritornano i luoghi del destino: una cabina telefonica dove c’è troppa luce. Se ti togli gli occhiali da sole rischi di rimanere abbagliato come nelle scene con l’eclissi solare. Sì, puoi scottarti, ma è un film così sgangherato e pieno di vita che seduce, respinge ma poi ti fa innamorare di nuovo con i 166 minuti che volano, bruciati anche da un film che ha una gran voglia di raccontare, da urlo anche troppo, ma ha una tale generosità che non vorrebbe più fermarsi.

La classifica cinematografica di Sentieri Selvaggi

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