Un viaggio sulle sponde oscure del fiume che raggiunge il suo delta. Alessandro Borghi e Luigi Lo Cascio si affrontano in questo dramma d’atmosfera diretto da Michele Vannucci con la nebbia e l’umidità del Po. Ecco la nostra recensione del film, scritta da Mauro Donzelli.
Una barca scassata che carica e scarica tra una sponda e l’altra, prima di muoversi silenziosa lungo un fiume che all’orizzonte ha il colore del cielo, grigio. In cui tutto ha il colore della nebbia. È l’immagine ricorrente di DeltaDove il Po si allarga verso il mare, in un eterno ripetersi di gesti apparentemente identici ma sempre più stanchi di personaggi che portano il peso di interminabili giornate. Il fiume è un immaginario un tempo presente nella narrazione e nel cinema italiano, prima di scomparire in un silenzio di decenni. Michele Vanucci è stato sedotto da un viaggio lungo le sue sponde, dalla città al maree volle immergersi senza compromessi in quelle acque senza onde, se non quelle provocate da chi vi si avventura.
Nel disinteresse di chi si trova anche solo a pochi chilometri da quelle sponde, da decenni si combatte uno scontro che ha ormai alternato fronti e nemici, in cui coloro che cercano di sfruttare quel luogo, principalmente pescatori, attraverso il loro duro lavoro ed entrando nella natura ciclica eterna, si scontra con chi si affida a mezzi più veloci e invasivi. Chi ne ha viste tante pensa ostinatamente che il nemico da combattere siano le fabbriche chimiche che di notte sversano rifiuti mortali, ma la minaccia 2.0 è costituita dai bracconieri che vanno a caccia grossa con mezzi draconiani, una bella scarica di elettricità, per catturare l’unico “tesoro” rimasto, un predatore cresciuto in modo sempre più eccessivo e inquietante: il pesce gatto.
Per noi è lo scontro tra gli idealisti, custodi della purezza delle sponde e delle acque del fiume, capeggiati da Osso (Luigi Lo Cascio), e una famiglia di bracconieri slavi del Danubio. Elia (Alessandro Borghi) è uno di loro, anche se è nato in quelle terre. Manca da tempo, tanto che nelle rare occasioni borbotta qualche parola, l’accento che ne esce è spurio. Regna la violenza, quella soffocata pronta a esplodere e quella che ha lasciato le sue tracce sui pescatori stremati che vorrebbero la guerra e sui nomadi che agiscono per la sopravvivenza. Il fronte è sempre il fiume, la direzione è così diversa da rendere inconciliabili le posizionimentre le istituzioni sono solo assenti.
Una frontiera abbandonata, un campo di battaglia tra pulsioni oscure che affiorano nelle viscere sempre più provate da generazioni di sfruttamento e stenti. Un senso di abbandono che Vannucci rappresenta con grande immedesimazione, costruzione un’atmosfera malsana ma affascinantedall’alto si alternano visioni di promettente bellezza, puntualmente smentite dalle quotidiane battaglie tra una sponda e l’altra.
Parte da una dinamica molto chiara, Delta, da scontro tra interessi e idealismo, sfumando sempre più i fronti man mano che ci si avventura sulla superficie dell’acqua, perdendo il senso stesso della disputa. Come in tante guerre troppo lunghe o troppo disperate. Si rischia di perdere l’orientamento, la razionalità si dirada man mano che la nebbia si alza, l’agguato diventa notturno e lo scontro diventa una fuga da Cuore di tenebra, in cui la natura assiste alla follia umana che cede ai suoi istinti più primordiali. Bone contro Elijah, vendetta e colpa, in un duello che sfocia in un western pieno di umidità e fango, in cui tutto perde di significato tranne l’istinto di sopravvivenza e l’oppressione.