«No alle parole d’odio in Università» – .

«No alle parole d’odio in Università» – .
«No alle parole d’odio in Università» – .

Le tende dei collettivi studenteschi dell’Università di Bologna – Photogram

“Noi ci accampiamo, non trovate scuse”. Lo slogan accattivante scelto dai collettivi dell’Università di Bologna spiega molto bene l’ultima mobilitazione pro-Gaza, con tanto di tende davanti all’università e presidi permanenti, ma è soprattutto la retorica anti-israeliana a preoccupare. C’è un fronte comune che lega il capoluogo emiliano all’Università La Sapienza di Roma – dove ieri si è svolto un incontro pubblico di chi chiede il boicottaggio degli accordi con gli atenei di Tel Aviv – e all’Università Bicocca di Milano, che ha indicato il modello: Columbia University. Quello che sta succedendo in America è l’esempio da seguire per la sigla “Cambiare Rotta”, che giovedì ha organizzato un’altra protesta. Dopo lo stop del convegno su Israele all’Università Statale di Milano la scorsa settimana, a causa dei rischi legati all’ordine pubblico, è quindi opportuno riflettere sull’organizzazione di questi movimenti, che si muovono come cellule autonome all’interno delle università.

Minoranze organizzate?

«Ciò che preoccupa è il riemergere di posizioni antisioniste, ma sbaglia chi fa paragoni con il periodo del 1968», osserva il filosofo Davide Assael, impegnato nella comunità ebraica e sempre aperto al dialogo. «Chi fa riferimento a quella fase storica rischia di fare una rappresentazione caricaturale della realtà. Innanzitutto perché oggi i numeri sono totalmente diversi: siamo in presenza di minoranze di collettivi molto particolari, mentre ai tempi della protesta, nelle università, c’era una mobilitazione generazionale molto più ampia”. Nessun parallelo, quindi, con le proteste nelle città italiane, né con il “maggio francese” né con la “generazione Vietnam” che stava esplodendo dall’altra parte dell’Oceano. Semmai, ciò che occorre raccontare oggi è la lotta comune contro ogni imperialismo, che ha sempre affascinato i giovani impegnati, soprattutto dell’estrema sinistra, e che ha fatto della causa palestinese una bandiera. «In realtà – continua Assael – l’interesse per questa causa dovrebbe essere invertito: le iniziative post-7 ottobre dicono infatti che la vera questione da risolvere riguarda la “questione ebraica”, anche a causa della mancata elaborazione da parte dell’Occidente la Shoah» . Questo movimento risale alla cultura si è svegliato e sembra imputare all’Occidente gran parte dei mali di questo periodo storico (a partire dal non aver tenuto conto del suo passato coloniale) ma la cosa che più colpisce sembra essere la capacità di unire padri e figli, come dimostrato dall’asse nelle università italiane tra alcuni Senati e collettivi accademici, in nome di una comune nostalgia per vecchie ideologie e di una battaglia comune, che certamente ha avuto e sta avendo un forte richiamo mediatico, al di là dei piccoli numeri della protesta.

Anche in parte del mondo musulmano c’è preoccupazione per quanto sta accadendo. «Dobbiamo evitare che gli studenti vengano manipolati», dice Yahya Pallavicini, vicepresidente del Coreis, la comunità religiosa islamica italiana, secondo il quale «le università non possono trasformarsi in un campo minato di odio. Una cosa è solidarizzare con un popolo, un’altra è rischiare di essere sfruttati. Dobbiamo essere onesti e riconoscere le asimmetrie: per noi Hamas non rappresenta nessuno, se non un gruppo di criminali e terroristi”. È chiaro che il suggestivo richiamo all’Intifada, evocato dai collettivi, ha ricadute anche all’interno dell’Islam italiano, a parte gli schieramenti di bandiere, perché provoca inevitabilmente quello che l’Imam Pallavicini chiama «lo scatenamento viscerale ed emotivo, dell’opinione pubblica». Oltre a tutto ciò, la decisione annunciata dal governo Netanyahu di bombardare Rafah è davvero «un segnale negativo. Basta con il conflitto totale, basta con l’accanimento contro i palestinesi”, ripete il vicepresidente di Coreis.

Imam Yahya Pallavicini – non definito

Governo e rettori nel mirino

Nel mirino dei collettivi ci sono «i rettori delle università italiane, e in particolare la rettrice e presidente della Crui, Giovanna Iannantuoni», si legge nel post Cambiare Rotta. La ragione? “Non hanno ancora preso una posizione chiara che rompa con la catena della guerra e con il regime di apartheid sionista”. I movimenti parlano di «vittorie ottenute dalle università di Bari e Torino, con il boicottaggio accademico del bando Maeci e in continuità con le università americane in lotta». La data cerchiata sul calendario è il 15 maggio, giorno del ricordo del cosiddetto “Nakba”nome utilizzato per indicare l’esodo forzato di 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele durante il primo conflitto del 1948.

«È un momento delicato», ha ammesso in un’intervista la ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, secondo la quale «la protesta, il dissenso, la critica, anche dura, sono espressioni del tutto legittime. La vera distinzione, inaccettabile e insormontabile, è la violenza. Impedire a qualcuno di parlare è il contrario della democrazia”. Il membro esecutivo ha menzionato anche il presidente americano Joe Biden. «Ha detto: “Il diritto alla protesta non significa il diritto al caos. Non siamo uno Stato autoritario che mette a tacere le persone e reprime il dissenso, ma non siamo nemmeno un Paese senza legge”. Condivido questo approccio e, allo stesso tempo, sottolineo che in Italia la situazione appare largamente sotto controllo. Non c’è caos.”

 
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