“A differenza della mia generazione, Z non ha paura di protestare” – .

Alla fine degli anni Duemila, Milano è il centro dell’universo: appena tramonta il sole, un’intera generazione si ritrova a fare sottoterra festa fino all’alba. Musica indie o da club con selezione all’ingresso, ubriachi e jeans attillati. Spesso, molto cocaina.

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Animali notturni (Einaudi) è il primo romanzo (generazionale) di Carlotta Vagnolie si presenta come un libro “sintetico e acido”, che è allo stesso tempo una denuncia e un grido feroce. Un libro duro con uno stile cinematografico.

L’autore ha già pubblicato libri come Maledetta sfortuna. Vedere, riconoscere e respingere la violenza di genere (Fabbri, 2021) e il più recente Ricordo delle mie cagne felici (Marsilio, 2022), oltre al saggio breve Poverini – Come non si parla di femminicidio per la serie digitale Quanti di Einaudi. Nel suo debutto narrativo mira a raggiungere un ritratto spietato di una generazioneil post-G8 di Genova, quello del millennial.

Se hai vent’anni negli anni Duemila, infatti, le possibilità sono pochi. Il mito del lavoro in giacca e cravatta, con mutuo e aspirazioni borghesi, è puro utopia.

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Da qui l’obiettivo ben più tangibile di partecipare ad a festa quasi infinito, perché se lo vogliono tutti insieme, forse il giorno dopo il sole non sorgerà su Milano… Ma quando le persone iniziano a saltare dagli edificie quando la presenza di un predatore sessuale genera un clima di psicosigli animali notturni lo capiscono il loro territorio è sotto attacco

Nel romanzo “polpa”di Vagnoli ilimpero della notte è caotico e disperato, e proprio per questo motivo non può durare. Quando G salta dal sesto piano è come se portasse tutto con sé. Come se, dopo una lunga caduta, per il animali notturni era arrivato il momento dell’atterraggio…

Animali notturni di Carlotta Vagnoli

Carlotta Vagnoli, da quanto tempo avevi in ​​mente questa storia, questo ritratto notturno di una certa Milano, tra feste, droga e disperazione?
“Da qualche anno penso a come raccontare un passato molto recente, che forse non siamo ancora pronti ad analizzare. Per la mia generazione i primi anni 2000 sono stati gli anni della caduta e della disillusione. Ci sono voluti quasi vent’anni per riprenderci. Milano, la città in cui ho abitato per un decennio, è stata una cornice perfetta per questa storia: buia e piena di neon, con i locali underground e le feste fino all’alba, l’intramontabile circuito delle discoteche che hanno saputo capitalizzare una fetta ben precisa di clientela , il vuoto istituzionale e lavorativo colmato dalla droga. Ma Milano non era molto diversa dalle altre città in cui avvenne la stessa sconfitta nello stesso periodo: Londra, Berlino, New York, anche Roma per certi aspetti furono piene di storie e vicissitudini molto simili tra loro. Quando ho deciso di iniziare a scrivere, ho voluto partire dalla storia di G, che cade da un palazzo: purtroppo conosco tante storie come la sua. In modo naturale mi sono poi mosso tra spazi, dinamiche, inquietudini – ed eccessi – che avevo visto e conosciuto bene. Ci sono stati due anni di avanti e indietro con questa storia: l’ho amata e l’ho odiata, mi ha divorato. Vomitarlo è stato quasi terapeutico”.

Qual è oggi il tuo rapporto con il capoluogo lombardo, città inevitabilmente contraddittoria e discussa, soprattutto negli ultimi anni, tra crisi economica, crisi immobiliare e nuove forme di schiavitù, legate anche al mondo digitale?
“Non ho più un buon rapporto con il Milan, che per me è stata casa per tanti anni. Infatti quando devo andarci per lavoro cerco sempre di tornarci in giornata. Non solo per i ricordi stranianti che ho legato a quel luogo, ma anche per la situazione che oggi vedo peggiorare sempre di più. Se quel posto è stato cattivo con noi millennial, non mostra pietà per la GenZ”.

Come?
“La protesta per gli affitti ne è un esempio, così come la possibilità di vivere una città sicura, accogliente, realmente contemporanea, che conosca il valore dell’integrazione e della valorizzazione dei suoi giovani. Non è così e vederlo mi spezza il cuore. Una boutique city piegata a turni spesso disumani, che sputa sempre più fuori chi non fattura bene e non tiene il passo: da Expo 2015 a oggi le cose sono solo peggiorate”.

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Scrivere questo romanzo ti ha “costretto” a riflettere sulla tua generazione, quella dei millennials, quella post-G8 di Genova? Ha cambiato idea su qualche aspetto?
“Ho iniziato a pensare alla mia generazione invisibile durante il lockdown. Qualcosa stava cambiando: molti miei coetanei tornavano ad essere attivi, con un rinnovato interesse per le questioni sociali, politiche, civili e culturali. Movimenti e voci libere nascono vent’anni dopo il G8 di Genova. E ho capito che ci è voluto tutto questo tempo per alzare nuovamente la voce. E se ce l’abbiamo fatta, è stato grazie alla nuova generazione, gli Z, che non solo sta vivendo esattamente quello che è successo a noi, ma che non ha paura di protestare. Penso che per molti di noi sia nata la necessità di interrompere la catena”.

Significato cosa?
“Nessuno si è schierato con noi, penso che sia arrivato il momento di farlo nei loro confronti, per cercare di offrire loro un futuro migliore. In questi anni ho capito tante cose di ‘noi’, prima fra tutte quanto sia stato difficile confrontarsi con un mondo che non ci ha mai lasciato spazio e che ci tratta ancora come bambini, nonostante abbiamo ormai 40 anni”.

Su Instagram hai parlato di una storia “pulp”. Per il tuo primo romanzo avevi in ​​mente modelli letterari, libri, autori dai quali, anche indirettamente, hai tratto ispirazione Animali notturni?
“Non avevo modelli, ma tenevo ben presenti le parole di Bret Easton Ellis sull’importanza dell’architettura narrativa: volevo quindi provare a trovare strutture nuove, insolite, o almeno funzionali alla mia storia, che potessero facilitare il senso di caduta nel lettore. Ho scelto quindi questa forma ad ‘imbuto’, dove le storie dei tre personaggi, raccontate con voci diverse e in tempi diversi, precipitano alla fine, ricongiungendosi. Mi piaceva l’idea di una telecamera immaginaria che seguisse velocemente la ragazza dai capelli rossi (Schultz, devo il suo nome ai vostri Peanuts), Michele detto Mick, come Jagger, e Mon Chéri (tre personaggi con soprannomi, nomi fittizi, di cui non conosciamo mai le generalità). Naturalmente, ogni tanto ho pensato fortemente ‘come lo descriverebbe Chuck Palahniuk?’. Ma, come ben sai, il talento (il suo) è in gioco tra il dire e il fare…”.

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Un’ultima curiosità: è cambiato il tuo approccio ai social media ultimamente? Ritieni che oggi sia possibile un utilizzo costruttivo di questi strumenti?
“Da mesi – direi un anno – ho un rapporto sempre meno stretto con il mezzo digitale. Mi sembra, paradossalmente, claustrofobico. Con le sue continue richieste di coerenza estrema, do ut des, leggi non scritte, polarizzazioni, è diventato per me un pianeta estraneo, dove atterro quando ho bisogno di scrivere qualcosa di sensato. Ho deciso anche di cancellare del tutto l’aspetto personale dal mio profilo Instagram, che già era scarno, perché mi disturba l’idea di una folla senza volto che fa gli affari miei, quelli della mia famiglia, dei miei amici o colleghi di lavoro. . Lo trovo brutale e quando sono vittima di una tempesta di merda, purtroppo a farne le spese sono i miei parenti, contattati da profili che li insultano o desiderano la morte, colpevoli di essermi vicini. Ma negli ultimi mesi, in cui la situazione in Palestina sta nuovamente peggiorando e lo sterminio da parte di Israele sta raggiungendo dimensioni genocide, i social media si stanno comportando come un preziosissimo mezzo di comunicazione e controinformazione. Se fino a qualche anno fa i crimini di guerra potevano passare inosservati, ora abbiamo i telefoni. E molti coordinamenti avvengono tramite i social media. Ebbene, quando penso a questa dimensione, trovo che il digitale sia un bellissimo posto in cui abitare. Quasi come nel 2006”.

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