Maurizio Baglini, pianoforte – .

Durante il primo dei due secoli ci separano dal creazione dell’ultima sinfonia di Beethoven, tenutasi il 7 maggio 1824 al Teatro Porta Carinzia di Vienna, le sue esecuzioni complete furono relativamente poche e ebbero un carattere eccezionale. Anche durante la tournée dei Wiener Philharmoniker in Sudamerica, diretta da Richard Strauss nel 1923, venne omesso l’ultimo movimento, considerato oggi la sua parte più caratteristica: portare un coro da Vienna sarebbe stato un costo incompatibile ed evidentemente non ci si fidava di loro. troppe risorse locali.

Nei primi anni della diffusione del fonografo, le registrazioni di musica orchestrale erano molto rare e insoddisfacenti (la cosa curiosa insieme che si sente sotto la voce di Caruso è una sostituzione successiva del pianoforte originariamente utilizzato). Questa è la prima sinfonia di Beethoven registrata in do minorediretto nel 1910 per l’etichetta Odeon da Friedrich Kalk, a Maestro di cappella Hamburger attivo soprattutto nell’operetta e oggi praticamente sconosciuto. Là Non al “tecnicamente riproducibile” appare a Londra nel 1926, con Felix Weingartner sul podio; per ragioni di mercato le parole della sigla furono tradotte a casaccio in inglese, e verranno tradotte nove anni dopo anche in America, protagonista Leopold Stokowski. In tedesco arrivò solo nel 1936, sempre diretto da Weingartner, questa volta a Vienna ma sempre per una casa discografica d’Oltremanica.

Per molto tempo, quindi, la conoscenza sonora di Beethoven orchestrale avvenne con modalità diverse da quelle attuali. Sono state utilizzate riduzioni per pianoforte a quattro mani, senza troppe pretese “artistiche” e generalmente alla portata di buoni dilettanti; ad esempio, prima di andare ad ascoltare una sinfonia la domenica pomeriggio all’Augusteo, circa un secolo fa, l’avvocato e parlamentare bergamasco Giuseppe Gavazzeni la “provava” al pianoforte insieme al figlio Gianandrea, quattordicenne studente di musica. a Santa Cecilia che poi raccontò con parole sue quest’abitudine, che oggi ha quasi dell’incredibile.

Già verso la metà dell’Ottocento si era fatto netto il divario tra la pratica del “fare musica in casa” e quella dei concerti pubblici, culminati nel nome di Franz Liszt. Il grande pianista si considerava innanzitutto un compositore e, non ancora trentenne, cominciò a cimentarsi nella realizzazione di versioni per tastiera delle sinfonie di Beethoven; ma per il Non al preferì prepararne, nel 1850, uno per due pianoforti. La casa Breitkopf und Härtel di Lipsia, allora principale editore musicale del mondo austro-tedesco, insistette molto per avere la trascrizione con due mani anche di questo. Liszt lo considerò a lungo “impossibile” e la serie completa poté essere stampata solo nel 1865. L’illustre editore dichiarò di aver omesso pochissime note dagli originali.

Nel gennaio 2022 il “pianista visionario” Maurizio Baglini creò a Pordenone una “maratona” Beethoven-Liszt: in un giorno furono eseguite le trascrizioni delle prime otto sinfonie e la trascrizione per due pianoforti dell’ultima. Dieci strumentisti italiani, famosissimi o conosciuti solo dagli “addetti ai lavori”, hanno suonato con grande impegno e risultati per lo più memorabili. Avevamo deciso di ascoltare quattro sinfonie, tra il pomeriggio e la sera, ma dopoEroico ci siamo precipitati a cercare i biglietti per tutti i rimanenti. È stata una giornata esaltante, che ci ha lasciato curiosi di ascoltare “dal vivo” l’altra versione. Non al.

Tra le tante rappresentazioni in programma per il bicentenario della sinfonia per eccellenza, che spesso ci sembrano “autocelebrative” di istituzioni, orchestre e direttori, spicca a nostro avviso la scelta del Lucca Classica Festival, giunto alla sua decima edizione edizione, e il suo direttore artistico Simone Soldati, per presentare la trascrizione a due mani dell’ Non al, convergendo con la volontà di Maurizio Baglini di ripetere in pubblico l’“impresa titanica” già compiuta negli anni passati. Vale la pena ricordare che nel 2015 la grande sinfonia è stata il “clou” della prima edizione dello stesso Festival: l’hanno eseguita al Teatro del Giglio il Coro Filarmonico di Modena Luigi Gazzotti e l’orchestra “senza direttore”. Spira mirabilis. Abbiamo avuto allora l’impressione che lo spazio libero al centro della scena non ospitasse il fantasma di un direttore d’orchestra, ma facilitasse il dialogo delle prime parti tra di loro e con tutta l’orchestra. “Non puntiamo mai a un compromesso tra opinioni contrastanti espresse durante lo studio: alla fine dobbiamo riconoscere quale è la migliore e adottare l’una o l’altra”, ha detto uno degli artisti dopo quel concerto per sottolineare il carattere collettivo della realizzazione. La scelta di eseguire la trascrizione lisztiana ha ovviamente un carattere del tutto individuale, ma anche in questo caso il pianista deve evitare il possibile compromesso tra l’intenzione espressiva e la trascendente difficoltà tecnica.

Le famose, ambigue quinte vuote con cui inizia la sinfonia nascono impalpabili dal nulla, finché un acuto guizzo conduce alla prima esplosione del tutti. Le straordinarie dita di Baglini sono al servizio di una straordinaria penetrazione intellettuale e fisica della musica; l’interazione delle voci ricompone momento per momento il testo. Lo sguardo dell’ascoltatore si concentra sul suo volto; i grandi gesti del braccio sinistro “contano”, quasi come un regista di se stesso, le pause di silenzio, talvolta straordinariamente ampie ed essenziali costituenti di logica ed emozione. Il primo Allegro si chiude, autenticamente «non troppo, un po’ maestoso»: ora al posto del caos primordiale esiste il mondo. In questo movimento Beethoven non fa uso di tromboni e questo è chiaramente percepibile anche dall’esecuzione al pianoforte.

Liszt raggiunge probabilmente l’apice della sua arte di ricompositore nell’esplosione di gioia orgiastica dello Scherzo. La partitura non è avara di istruzioni dettagliate, ma eseguirle è un’impresa ardua, che richiede particolare abilità timbrica sulla tastiera, insieme alla prontezza e precisione di una “macchina ideale”. Baglini è riuscito in un’impresa quasi impossibile combinando una grande varietà diattacco alla chiave il perfetto uso dei pedali: risonanze rapidissime contribuivano alla ricchezza del suono percussivo e, soprattutto nei passaggi con note ripetute, il gioco degli archi, tre, due o uno, ricreava la differenziazione interna dei legni e degli archi.

La durata dell’Adagio tanto e cantabile dipende fortemente dall’intenzione interpretativa. Sostenere ampiezze furtwängleriane sul pianoforte, strumento dal suono impulsivo, comporterebbe un abuso di risonanze che Baglini, molto giustamente, ha evitato. La stessa trascrizione non indulge qui nel tentativo di riprodurre la massa degli archi, il tema cantabile assume un suono tipicamente pianistico e l’effetto imitativo timbrico dell’orchestra riguarda quasi esclusivamente le perorazioni di corni, trombe e tromboni nell’ultima sezione del movimento.

Il Finale segue senza pausa, con a attaccare immediatamente il che non manca di sorprendere, anche a distanza di decenni, chi, come noi, lo aveva conosciuto Nona sinfonia dai vecchi “trentatré giri”, con la necessità di “girare il record” dopo l’Adagio. La complessità della scrittura pianistica raggiunge ora il suo massimo, dovendo rendere, per lunghi tratti, anche le quattro o più voci dei solisti e del coro. L’invito a cantare nel registro del baritono assume, grazie al tocco di Baglini, una chiarezza e un risalto spesso desiderati invano dalla voce umana. IL sfuggito che segue Alla March del tenore è, a nostro avviso, la sezione “impossibile” da trascrivere con piena efficacia, tanta è la ricchezza polifonica della scrittura di Beethoven, ma l’interprete ne ha pienamente compreso l’inesauribile tensione ritmica. Il successivo Andante maestoso in sol minore costituisce, invece, uno dei picchi dell’opera di Liszt e ci è sembrato addirittura arricchire timbricamente la partitura. Baglini ha saputo coniugare magistralmente cantabilità e trasparenza dei colori; se ci è permesso riportare un’impressione personale avuta durante l’ascolto e non basata sul confronto delle due partiture, in questo brano ci è sembrato che Mussorgsky (un grande pianista, secondo quanto dicono i suoi contemporanei) avesse ben in mente il testo di Liszt mente, soprattutto nella seconda sezione, Adagio ma non tanto, ma divoto, quando, otto anni dopo la sua pubblicazione, compose il Catacombe (sic!) dei Dipinti. Le sezioni finali della sinfonia riportano in primo piano l’esigenza di un virtuosismo totale e spettacolare. Il riverbero dell’ultimo accordo sfuma nei calorosissimi ringraziamenti del pubblico che riempie la navata di Santa Maria dei Servi: unica, non troppo ampia né alta e con soffitto ligneo a cassettoni (caratteristiche che contribuiscono ad un’acustica insolitamente buona per una chiesa) .

Al suo secondo ritorno tra scroscianti applausi, il pianista prende la parola e annuncia con commozione che, contrariamente alla logica che escluderebbe qualsiasi bis dopo il Nona sinfonia, vuole ricordare la figura di Marcello Parducci, per vent’anni presidente dell’Associazione Musicale Lucchese, molto amato dai tanti interpreti di fama internazionale che seppe invitare nell’appartato quartiere in cui operava. Baglini gli dedica uno dei corali più intimi di Bach trascritti da Busoni «in stile cameristico», Ti invoco, o Signoresuonato con la dovuta severità (non meno accorate parole di rammarico e un bis commemorativo avevano concluso nello stesso luogo, poche ore prima, il concerto del Quartetto della Scala).

Grazie ancora, “visionario”!

La recensione si riferisce al concerto del 25 aprile 2024.

Vittorio Mascherpa

 
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