Da circa una settimana, non senza qualche protesta, chiunque entri a Venezia è costretto a mostrare il proprio cellulare con il codice QR che certifica il diritto di ingresso in città, perché ha pagato il biglietto d’ingresso o ha l’esenzione perché residente o turista con prenotazione alberghiera.
Hanno sistemato due biglietterie a piazzale Roma e alla stazione ferroviaria.
Per rendere soft la trasformazione di Venezia in un museo a cielo aperto, hanno assunto personale con compiti diversi: si va dalle pettorine bianche, che indirizzano e rassicurano, a quelle arancioni, che hanno un compito di controllo. La funzione repressiva è nelle mani della polizia municipale.
Tutti questi apparati sono estremamente costosi per cui il ricavato dell’accesso alla città museale non va al Comune ma serve a pagare le spese di mantenimento del sistema di controllo. Ci guadagneranno le società private che gestiscono i varchi, che otterranno anche i dati di chi, a vario titolo, vi accede. L’acquisizione dei dati è di per sé un buon affare, perché facilita la profilazione ed è attrattivo per chi deve collocare i propri prodotti.
Chi vive a Venezia, chi ci lavora con un contratto, chi studia, chi deve fare una visita medica, tutte le forze dell’ordine, chi partecipa alle manifestazioni patrocinate dal Comune, chi è nato a Venezia, chi chi vive in Veneto… non paga l’ingresso ma è comunque profilato.
A Venezia, con il pretesto di controllare il turismo occasionale, l’intera popolazione è posta sotto costante controllo. È escluso chi lavora in nero, chi vive in città ma non ha un contratto di affitto, chi non ha documenti, chi non ha un lavoro. Queste persone devono “scegliere” tra pagare o diventare immigrati clandestini nella città in cui vivono.
Ne abbiamo parlato con Nicholas, un amico di Venezia
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