I due Foscari – .

I due Foscari – .
I due Foscari – .

“Osservo che in Byron non c’è quella grandiosità scenica che si desidera nelle opere per musica: metti a dura prova il tuo ingegno e trova qualcosa che faccia un po’ di rumore soprattutto nel primo atto. […] Fatelo con impegno perché è un argomento bellissimo, delicato e molto patetico”.

Così scriveva Giuseppe Verdi al suo fedele Francesco Maria Piave non appena individuò il dramma di Byron I Due Foscari la base su cui comporre la sua nuova opera che debuttò al Teatro Argentina di Roma il 3 novembre 1944. D’altronde è quasi impossibile spostare un soggetto come quello del Due Foscari, in cui tutto si gioca sullo sfondo politico che porta ai drammi personali di un Doge, di suo figlio e della sua combattiva nuora. Piave ha fatto di tutto per movimentare l’azione, inserendo qua e là qualche colpo di scena teatrale – per esempio, l’ingresso di Lucrezia nel terzo atto che, senza giri di parole, dice al Doge: “Ah più figli, infelice, tu non ‘t… Mentre se ne andava, l’innocente morì…”; una frase lanciata lì come un macigno, senza alcuna delicatezza, e che da sola giustificherebbe l’infarto di un genitore. Ma, come se non bastasse, subito dopo la tensione drammatica sale ulteriormente con Loredano che informa Francesco Foscari del licenziamento deciso dai Dieci. E il grandioso finale riservato al protagonista che canta “Questa è dunque l’iniqua mercede…” è l’ennesima dimostrazione di come Verdi amasse, più di ogni altro, la vocalità del baritono ma anche di come, con il contributo non banale di Piave aveva trovato il modo di far saltare sulla sedia il suo pubblico. Certo la sensibilità odierna ci rende meno propensi a comprendere tragedie basate su questioni etiche e d’onore, soprattutto se legate alla politica, ma è la musica del primo Verdi, quella degli “anni di galera” a compensare regalandoci forti emozioni.

Un turbinio di emozioni e di emozioni è quello che abbiamo vissuto durante la rappresentazione domenicale dei Due Foscari a cui abbiamo assistito al Teatro Municipale di Piacenza e ciò che più ha contribuito è stata probabilmente la regia di Matteo Beltrami che, dopo Il Trovatore diretto l’anno scorso nello stesso teatro piacentino, ha dato l’ennesima dimostrazione di avere la musica di Verdi nel sangue, di sentirla come pochi altri, di respirarla insieme ai cantanti e di viverla in perfetta simbiosi con il orchestra. Beltrami ha fatto emergere il meglio del primo Verdi con il suo fuoco, i tempi vivaci, ma anche richiamando la sua estrazione belcantistica percepibile in più punti della partitura. L’Orchestra dell’Emilia-Romagna “Arturo Toscanini”molto preciso nel rispondere alle indicazioni del direttore, ha evidenziato sin da allora Preludio essere in forma brillante: dopo le nove battute iniziali i cromatismi creati dall’intreccio di ottoni e fagotti con archi e fiati acuti sono di rara bellezza, come il clarinetto Solo che squarcia il silenzio con un suono struggente, introducendo il tema di Jacopo Foscari e quello di Lucrezia. Quest’ultimo reso con preziosa filigrana dal tremore dei violini abbinati al flauto. Una direzione particolarmente attenta all’equilibrio sonoro e alle esigenze dei cantanti senza esserne dominata, anzi; ma mantenendo sempre una quadratura assoluta del cerchio. Va dato merito anche alla bacchetta di aver saputo raccontare la storia senza incorrere nei cali di tensione che potevano essere indotti dalla povertà della trama, ma anzi mantenendo l’attenzione costante e vigile verso la bellezza di uno dei luoghi più intriganti composizioni del giovane Verdi; partitura che già lascia intravedere scorci della Traviata, di Simon Boccanegra e del Don Carlo.

Ovviamente anche i cantanti hanno beneficiato di questa direzione.

Luca Salsi nei panni del Doge è stato protagonista di una performance maiuscola che ci ha convinto senza se e senza ma. Il baritono parmense ha dimostrato di padroneggiare pienamente il ruolo facendo sfoggio di una vocalità completa ed omogenea su tutta l’estensione (anche il registro acuto è apparso più raccolto e meglio proiettato che in altre occasioni), buona quadratura musicale e assoluta attenzione alla parola scenica. Inoltre, il timbro vocale cupo, gli accenti giusti inseriti in un fraseggio molto vario, uniti alla buona presenza scenica, gli sono valsi un meritato trionfo di pubblico. Un successo al calor bianco che ha portato alla convinta richiesta del bis, generosamente concesso, di “Questa è dunque l’ingiusta ricompensa…”
Probabilmente la migliore prestazione del baritono parmense a cui abbiamo assistito fino ad oggi.

Marigona Qerkezi, chiamata a vestire i complicatissimi ruoli di Lucrezia Contarini al posto dell’attesa Marina Rebeka, è riuscita a non farci mancare il soprano lettone alla quale rivolgiamo i migliori auguri di pronta guarigione. Qerkezi, che abbiamo ricordato nel Guglielmo Tell messo in scena nella stagione 2019-2020 di OperaLombardia, ha avuto una notevole maturazione tecnica e vocale. Il soprano croato di origini kosovare ha da tempo messo la sua formazione di soprano lirico leggero al servizio di un repertorio più impegnativo, debuttando nei ruoli di Leonora (Trovatore), Elvira, Aida, Lucrezia Contarini e, presto, in quello di Abigaille. Personaggi con scritture vocali che fanno tremare le vene dei polsi e che potrebbero far temere per l’auspicabile longevità di chi li affronta. In realtà l’ottima organizzazione tecnica di Qerkezi ci lascia piuttosto tranquilli riguardo al suo futuro poiché, durante lo spettacolo a cui abbiamo assistito, non ci ha mai dato l’impressione di diventare più grande o di cercare una vocalità che non le si addice. era suo. La sua agilità e forza erano eccellenti, la sua resa vocale a tutte le altezze, le linee, la dinamica erano molto buone e il volume era più che buono. Il suo mantenere le distanze, a dimostrazione del fatto che canta con la propria voce, è stato davvero notevole, tanto che è arrivata alla fine senza perdere un colpo. Nonostante una dizione perfettibile, anche lei dal punto di vista interpretativo è risultata credibile, soprattutto in virtù di un fraseggio accurato e di una buona presenza scenica. Dal punto di vista prettamente vocale probabilmente non sei ancora un autentico soprano drammatico: te ne accorgi quando la partitura ti impone di cantare in forte le note che arrivano appena sopra la zona di transizione (diciamo Sol, La e Sib) e che non possiedono ancora la necessaria dose di metallo, a differenza del registro acuto e stracuto che invece si sprigiona facilmente, con grande brillantezza e potenza. In ogni caso, una prestazione da ricordare che colloca Qerkezi tra gli interpreti più affidabili oggi per questo ruolo.

Anche il test è stato sostanzialmente positivo Luciano Ganci impegnato nel complicato ruolo di Jacopo Foscari. Il tenore romano, reduce da due rappresentazioni dell’Aida (17 e 20 aprile) dirette da Riccardo Muti a Tokyo, ha affrontato le numerose asperità presenti nella partitura con la necessaria spavalderia, sfoggiando il consueto prezioso timbro alternando note splendidamente emesse con alcune quelle controllate un po’ meno bene, soprattutto in occasione di alcuni punteggi alti eccessivamente aperti e quindi non perfettamente girati e squillanti. Piccole cose, se vogliamo, soprattutto considerando le difficoltà presenti in questa parte e come è stata ben risolta nel fraseggio magnificamente marcato, nell’ampio sfoggio di colori e nel pathos infuso nel duetto con Lucrezia nel secondo atto e in generale nella la generosità mostrata nelle scene d’insieme. Del resto, la preziosa vocalità di cui è dotato questo tenore può essere una sorta di arma a doppio taglio, nel senso che con una voce di carattere così presente e brillante, anche una nota un po’ più forzata o meno a fuoco non passa inosservata. Ma questo è il prezzo che devono pagare gli artisti con belle voci.

Per le parti collaterali segnaliamo l’ottimo Loredano di Antonio Di Matteo e prove sufficienti di Ilaria Alida Quilico (Pisana) e Manuel Pierattelli (Fante). Ci dispiace dover segnalare prove deboli di ciò Marcello Nardis nel ruolo di Barbarigo. Completato il cast Eugenio Maria Degiacomi (servitore del Doge).

La prestazione è stata di ottimo livello Coro del Teatro Comunale di Piacenza, ottimamente allestito da Corrado Casati.

La messa in scena che porta la firma del regista Giuseppe Franconi Lee vede la luce nel 2008 all’ABAO Opera di Bilbao e arriva a Piacenza al termine di un percorso soddisfacente che lo ha portato al Teatro Regio di Parma, al Teatro Comunale di Modena e al Teatro Verdi di Trieste. I punti di forza risiedono sicuramente nelle scene semplici ma efficaci Guglielmo Orlandi (sicuramente apprezzati dai cantanti che si trovavano a cantare sempre con un muro alle spalle) che, scorrendo in maniera circolare, si aprono creando diverse ambientazioni e lasciando intravedere sullo sfondo un suggestivo scorcio di Venezia, ma anche nel preciso e movimenti essenziali affidati al coro e agli artisti. Molto belli anche i costumi storici disegnati dallo stesso Orlandi che, con un’intelligente scelta dei colori, evidenziava chiaramente i ruoli dei personaggi presenti in scena. Le luci sono efficaci Valerio Alfieri.

Al termine, lunghe ed entusiastiche ovazioni sono state riservate a tutti gli ideatori dello spettacolo.

La recensione si riferisce allo spettacolo pomeridiano di domenica 5 maggio 2024.

Danilo Boaretto

 
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