quando Bandai realizzò la sua console – .

Bandai rappresentava già all’epoca uno dei maggiori produttori di videogiochi, giocattoli, accessori e in generale di tutto ciò che ruota attorno all’universo dell’immaginario giapponese, anime compresi. Nel 1994 il mercato delle console c’era grande fermento con tutti i più importanti costruttori impegnati a progettare le proprie macchine, rivaleggiando con la concorrenza sul fronte tecnico e software.

In quell’anno uscirono la prima Playstation, il Saturn di SEGA e il PC-FX di Nec mentre Nintendo stava ancora lavorando al futuro Nintendo 64. Bandai aveva intuito in anticipo che il mercato stava progressivamente andando nella direzione “casa” e poco prima aveva iniziato a progettare una nuova console, chiamata Playdia.

I marchi di anime erano l’asso nella manica

Alcuni marchi molto forti legati a Playdia

Bandai ha avuto una forte collaborazione con alcuni dei marchi di anime e manga più famosi dell’epoca, da Dragon Ball a Sailor Moon, passando per Ultraman e Hello Kitty, usciti effettivamente in massa nei primi tre mesi di vita della console. Perché allora Playdia non è una console rimasta impressa nell’immaginario collettivo? Perché le sue “cartucce” da sparare finivano effettivamente lì.

Osservando l’estetica del telaio si capisce subito a quale pubblico si rivolge. Il carattere riproduceva quasi perfettamente quello dei giocattoli Playmobil (con cui tra l’altro condivideva anche metà del nome), e i colori molto accesi utilizzati per tasti e carrozzeria ci hanno fatto subito immaginare un pubblico composto da bambini. La previsione che Bandai non si azzecò era proprio questa, perché i preadolescenti dell’epoca erano completamente pronti a buttarsi su hardware avanzati e graficamente più accattivanti.

Bandai non è stata l’ultima aggiunta

La scatola di Playdia, una volta aperta, si presentava così
La scatola di Playdia, una volta aperta, si presentava così

In realtà Bandai non era nuova nel mercato dell’hardware, anche se le sperimentazioni precedenti in realtà si fermavano al concetto (quasi) di prototipo. Alla fine degli anni ’70 crearono la loro “pong”, una console con quattro giochi integrati chiamata semplicemente TV Jack, con alcune varianti fino alla Bandai SuperVision 8000 che aveva un totale di sette giochi disponibili su cartuccia (supporto integrato a partire dalla versione 5000).

Tutto questo per far capire che, tutto sommato, l’azienda giapponese non era esattamente l’ultima arrivata in campo hardware e anzi, la parabola ascendente sembrava una pista inarrestabile. Analizzando la serie di errori che hanno portato alla tragica e prematura morte di Playdia, va sicuramente considerato anche il fattore hardware. Nel 1994 per intero fervore poligonale 32 bit… Bandai ha dotato la sua console di un processore centrale a 8 bit. Infatti, Playdia rappresenta l’unica console con quella tecnologia appartenente alla quinta generazione.

Alcuni passi falsi da parte di Bandai

Quello che batte dentro la console Playdia
Quello che batte dentro la console Playdia

Ricordiamo tutti i grandi capolavori e giochi che l’era degli 8 bit ci ha regalato. Pensiamo solo ai grandi titoli per NES o SEGA Master System: c’era comunque modo di sfruttare quella (poca) potenza hardware. Forte di lettore CD integrato (e non era scontato per l’epoca) Bandai pensò invece di utilizzare questo mezzo per produrre principalmente titoli ad “interazione guidata”, per così dire, un po’ sulla falsariga di Dragon’s Lair.

I suoi giochi non erano in realtà videogiochi interattivi al 100%, ma vere e proprie storie guidate dove, di tanto in tanto, l’utente poteva fare delle scelte che apportavano lievi modifiche alla narrazione. La stragrande maggioranza dei titoli nel catalogo sono stati sviluppati dalla stessa Bandai, l’unico titolo di terze parti lo era Cioè Naki Ko – Suzu no Sentaku da VAP (filiale di Nippon Television) che, anche in questo caso, ha prodotto un video interattivo in full motion basato sull’omonima serie TV giapponese.

Punti di forza

Versione promozionale Playdia dell'epoca
Versione promozionale Playdia dell’epoca

Playdia aveva anche dei punti di forza? Nel mix di idee un po’ bizzarre e un po’ sbagliate, Bandai ha effettivamente fatto qualcosa di buono. Ad esempio il controller wireless integrato. Andando a memoria (perché il web non ci aiuta in questo caso) ha rappresentato uno dei primi casi di joypad senza fili integrato di default nell’hardware (e non un accessorio da acquistare separatamente, come nel caso del Sega Saturn o del primissimo controller a infrarossi di Atari).

Il fatto di inserirlo direttamente nello chassis di Playdia rappresentava sia una comodità che una forte limitazione: non era presente la modalità a due giocatori in nessun titolo. Bandai era consapevole di aver progettato una console “per bambini”, con tutti i limiti del caso. L’errore che sicuramente non ha commesso è stato quello del prezzo, posizionato a 24.800 yen contro i 44.800 del SEGA Saturn e i 39.800 della Sony Playstation.

Il ricordo che ci ha lasciato

Scatola, accessori, istruzioni e console in tutto il loro splendore
Scatola, accessori, istruzioni e console in tutto il loro splendore

L’obiettivo sbagliato, la bassa potenza, il terreno di gioco estremamente limitato e la mancanza di supporto da parte di terzi hanno poi decretato la fine prematura della coloratissima Bandai Playdiauna console che non ha varcato i confini del mercato giapponese, ma è entrata di diritto nel cuore di tutti gli appassionati di videogiochi che guardano un po’ con affetto, un po’ con il desiderio di possedere console mitologiche e di difficile reperibilità, fascia estremamente disagiata e sfortunata del mercato tempo.

Non ci sono dati ufficiali sulla sua diffusione, ma si stima che nel corso del 1994 siano stati venduti e distribuiti circa 120mila pezzi. La console infatti durò meno di un anno, a livello commerciale, e venne definitivamente dismessa nel 1996, lasciando la sua eredità alla collaborazione tra Bandai e Apple per la loro console “Pippin”, l’ennesimo caso di clamoroso fallimento… e una console mitologica destinata oggi al collezionismo più estremo.

 
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