Concerto diretto da Daniele Gatti – .

Concerto diretto da Daniele Gatti – .
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Quando si tratta della fase finale dell’attività di un compositore è davvero difficile evitare di avvolgere il tutto in un senso di addio, è davvero difficile resistere alla tentazione di vedere – per esempio – nell’ultimo Sinfonia una sintesi del viaggio dell’autore. In caso di Non al di Mahler è perfettamente inutile resistere perché l’addio e la retrospettiva sono parte integrante della partitura.

Sinfonia n. 9 in re maggiore è l’ultimo completato da Gustav Mahler prima della sua morte e, insieme ai precedenti, forma un corpo di nove grandi romanzi, nove universi sonori direttamente collegati tra loro (celebre è la lettera a Max Maschalk in cui Mahler, parlando di il Secondo, scrive «Ho chiamato il primo movimento Totenfeier, e se vuoi saperlo, è l’eroe della mia Sinfonia in re maggiore che porto a seppellire»), ma anche attraverso tratti più intimi e pervasivi: l’ossessione per la morte, la tensione verso il divino o comunque il trascendente, la memoria, l’infanzia, il peso insopportabile del destino. Questi stessi temi innervano anche il Non alma vengono presentati in modo meno lineare rispetto a quanto avvenuto in altri lavori – come nel caso di Il quarto o di Sesto – e intriso di un sentimento di addio così concreto da renderlo inscindibile dal passo altrettanto concreto della morte. Non è un fulmine a ciel sereno né un colpo di scure inaspettato, perché l’addio costituisce già una voce importante nel titolo precedente, Das Lied von der Erde del 1908; a questo proposito è molto interessante leggere le note del direttore d’orchestra olandese e amico personale di Mahler Willem Mengelberg, che scrive delle sue partiture «Il Lied von der Erde è: Addio all’«amico»! (all’umanità!)/La Nona Sinfonia è: Addio a tutto ciò che ama/e al mondo/e alla sua arte, alla sua vita, alla sua musica». In caso di Non alMengelberg stila anche uno scrupoloso programma dei singoli movimenti, indicando come il primo rappresenti l’addio ai suoi cari, il secondo una Totentanz («“Devi scendere nella tomba – Finché vivi, dimentica il cattivo umore”), il terzo «umorismo nero – ! Il lavoro, gli affari, tutti gli sforzi inutili vengono inghiottiti dalla morte!! trio – un ideale straniero (motivo originale) e il quarto è intitolato «La canzone della vita di Mahler / L’anima di Mahler canta il suo addio! Canta con tutto il suo essere. La sua anima canta-canta-/ per l’ultimo addio: “Leb wohl!”.
Un addio che ha il sapore dell’addio e dell’abbandono, che in qualche modo realizza il motto profetico “Ich bin der Welt abhanden gekommen” (“Sono perduto nel mondo”) del Rückert Lieder nove anni prima; tuttavia questo non dovrebbe farti pensare Non al o ai movimenti che lo compongono come isole di omogeneità. Come accennato prima, il trattamento delle suggestioni extramusicali non è lineare ed è sottoposto ad addensamento e rarefazione – solitamente su più livelli contemporaneamente – e l’emblema di questo modo di procedere è il primo movimento, senza dubbio l’oggetto sonoro più difficile da maneggiare. del tutto Sinfonia.

Daniele Gatti è più attento che mai nel gestire quello che all’orecchio appare più un magma informe e in costante mutamento che una partitura orchestrale: l’impressione del dato percettivo non è sbagliata perché l’etichetta di Andante comoda identifica una delle pagine più complesse dell’opera mahleriana opera tout court (molto amata da Berg), dove i concetti di variazione e sviluppo dalla forma sonata si fondono in un’unica soluzione. Il risultato è proprio un paesaggio con molti parametri in variazione simultanea, sotto il quale permane un substrato di gesti e motivi che attraversano tutti i venticinque minuti del movimento. Un esempio interessante è la figurazione con cui inizia l’arpa, ereditata ora dai contrabbassi, ora dai timpani, fino alle campane tubolari e qui è davvero difficile non immaginare un riferimento alla scena della comunione di Parsifal.

Gatti è estremamente scrupoloso nello svolgimento dei motivi attraverso le loro trasformazioni, sia nella mente che nel gesto, pertanto la partitura riesce ad acquisire grande chiarezza nonostante l’effettiva complessità di un testo che nasce con un’importante difficoltà di decifrazione. Certamente aiuta anche a inquadrare l’opera sul piano strumentale, che da un lato costituisce sì uno dei colpi finali di quel traboccante romanticismo, ma dall’altro indica con sorprendente chiarezza dove andrà a colpire in un Novecento più avanzato di quello conosciuti da Mahler, a partire dalla Seconda Scuola di Vienna: gli unisoni che generano un nuovo colore sonoro (al numero 9 del primo movimento ci sono dieci strumenti che cantano la stessa nota), la ricerca di illusioni timbriche tra il violino solo e l’ottavino , il gusto per i registri estremi dell’arpa, la frammentazione della stessa frase – anche nota per nota – tra diversi gruppi di strumenti o addirittura tra diversi strumenti solisti, solo per fare gli esempi più banali. Nella capacità di fornire un quadro complessivo solido e animato da tante venature, la prova di Orchestra Filarmonica della Scala, in questa occasione davvero titanica; l’attenzione al dettaglio timbrico-coloristico raggiunge vette altissime e l’esecuzione dei passi solistici (frequenti, lunghi e complessi) è assolutamente impeccabile, con particolare apprezzamento per quelli eseguiti dalla spalla Laura Marzadori.

Un caso curioso è quello del secondo movimento, per certi versi simile nei contenuti a quello dell’ Il quarto; lì si parlava di Morte che suona il violino, mentre in questo caso abbiamo una vera e propria Totentanz. Lo Scherzo ha quindi lo stesso segno del resto Sinfonia, la presenza tangibile della morte, ma in questo caso c’è anche un accenno di scherno che presenta anche accenti di inequivocabile grottesco; anime non propriamente diverse ma con una notevole differenza e Gatti riesce a fornire una lettura che non ha paura di sottolineare queste caratteristiche, pur riuscendo a mantenere un ottimo equilibrio con l’architettura generale: tutto è sempre coerente, tutto fa sempre parte di quella unico grande flusso. La regia di Gatti ha la stessa riuscita di una ripresa cinematografica che in una “scena d’insieme” decide di concentrarsi su alcuni dettagli: non si perde mai il contesto in cui si svolge un episodio e sapere che un evento sonoro è effettivamente inscritto in un dato panorama regala la possibilità di collocare la situazione in diverse prospettive. Interessante l’aspetto della citazione – ben marcata – dello Scherzo della Secondo: un ulteriore collegamento diretto con un’opera precedente non fa altro che aumentare la sensazione di Mahler che si guarda indietro e misura la distanza percorsa.

La stessa amara ironia è il motore trainante del concitato Rondò, significativamente indicato come “Sehr trotzig”, “molto testardo”. Il primo movimento conteneva la forma-sonata, la variazione e, non troppo velatamente, anche lo Scherzo e il Rondò. Nel terzo movimento – il rondò “ufficiale” – si esplora un fitto contrappunto in uno stile severo ben reso dalla Filarmonica che non manca di rigore, soprattutto se ne ammira la grande espressività che ci permette di uscire dalla gabbia del contrappunto per fare l’ingresso del corale naturale in cui appare evidente per la prima volta il gruppetto che diventerà fondamentale nell’ultimo movimento. La sezione dei fiati lavora sodo ovunque Sinfoniama in questo frangente il compositore chiede molto e i fiati della Filarmonica rispondono splendidamente, impeccabili sia nell’intonazione che nell’articolazione.

L’ultimo movimento, un Adagio di lunghezza simile al comodo Andante iniziale, impone uno sforzo a dir poco eroico al direttore e all’orchestra. I tempi sono così dilatati e le note così lunghe che sostenere i venticinque minuti di questa accorata preghiera (confessionale o laica è assolutamente irrilevante) è una prova di resistenza e concentrazione con un risultato tutt’altro che scontato. Gatti raggiunge l’apice dell’intensità patetica mentre la Filarmonica si propone con una grazia alata su cui scorrono veloci le ombre delle ance basse e i fortissimi non sono altro che gli stessi agglomerati di materia addensata ascoltati all’inizio del Sinfonia con una variante significativa: questa volta Mahler gioca molto sul mancato rispetto delle aspettative, portandole più volte a risolversi sul nulla. L’abbandono e l’addio sono diventati così forti che anche lo sbattere dei piatti ha un aspetto umile, una traccia di grandezza che non ha più alcun significato. Per lo stesso motivo, le dolci consonanze delle ultime pagine non possono essere scambiate per un lieto fine: è un lungo, amaro e doloroso addio che continua a sfumare nell’aria con il riverbero dell’ultimo accordo, finché gli applausi non lo uccidono.

La recensione si riferisce al concerto del 24 aprile 2024.

Luca Fialdini

 
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