le condizioni dell’accordo – .

le condizioni dell’accordo – .
le condizioni dell’accordo – .

In Medio OrienteSpesso il tempo è una dimensione indefinita, da piegare o espandere a seconda delle convenienze. Per Hamas è un’arma di pressione per ottenere condizioni ancora migliori di quelle “straordinariamente generose” – come le ha definite il segretario di Stato americano Antony Lampeggia in missione in Giordania – per un cessate il fuoco e uno scambio di ostaggi e prigionieri palestinesi. E così, dopo aver atteso qualche giorno, prima di volare al Cairo per esaminare la proposta dei negoziatori egiziano e qatariota, i vertici dell’organizzazione terroristica islamica si sono presi più tempo per dare la loro risposta, nonostante l’invito ad “accettare senza altri indugi” la proposta capo della diplomazia americana, da ieri in Israele. Eppure al loro arrivo avevano espresso una posizione di mentalità aperta e prima di partire avevano detto ad una televisione saudita che l’accordo proposto avrebbe rispecchiato alcune condizioni da loro poste. Il motivo, più o meno ufficiale, è che ora devono mettersi in contatto e attendere il parere dei due leader militari Yahya Sinwar e Mohammed Deif nascosti nel buio di qualche tunnel della Striscia. Ma la proroga dei termini è vista in Israele come un tentativo di ritardare il più possibile l’operazione a Rafah, aumentando la pressione delle famiglie degli ostaggi e anche i conflitti all’interno dell’esecutivo e del gabinetto di guerra.

L’OPERAZIONE

E poi arriva la dichiarazione del presidente israeliano Benjamin Netanyahu che porta con sé una ventata di gelo: «L’evacuazione dei civili da Rafah è iniziata, entreremo ed elimineremo Hamas con o senza accordo». “L’idea di fermare la guerra senza smantellare i battaglioni ancora presenti è impensabile”. Parole destinate a molte orecchie. Ai parenti degli ostaggi e dei soldati – o meglio: alle due organizzazioni di destra che li raggruppano – davanti ai quali pronuncia il suo discorso, e ai quali promette che la guerra non potrà finire senza il ritorno a casa dei loro parenti (anche se la maggior parte dei membri della famiglia è fermamente contraria in questo momento). E sono anche parole che dovrebbero in qualche modo calmare la rabbia dei due esponenti della destra messianica e ultranazionalista che minacciano di lasciare il governo se verrà fermata l’operazione a Rafah. Ma in questo modo Netanyahu pensa soprattutto ad aumentare la pressione su Hamas che in tutta questa vicenda, grazie agli ostaggi che tiene, continua a imporre le proprie condizioni.

LE NEGOZIAZIONI

Da quanto filtra dai giornali arabi Hamas vuole ulteriori concessioni sul ritiro dei militari israeliani dal corridoio di Netzarim che taglia in due la Striscia, sul numero e sull’identità dei prigionieri palestinesi che lasceranno le carceri. Secondo il Wall Street Journal, però, l’ipotesi sul tavolo si dividerebbe in due fasi. La prima con il ritorno a casa di 20 ostaggi in tre settimane, la seconda prevederebbe un cessate il fuoco di 10 settimane durante le quali il numero degli ostaggi liberati sarebbe maggiore e la tregua potrebbe durare mesi. Numeri che, però, non collimano con le ipotesi finora circolate secondo le quali i civili che potrebbero essere liberati sarebbero 33, unici sopravvissuti a sei mesi di durissima prigionia. Hamas vorrebbe anche che la Turchia fosse inclusa tra i garanti dell’accordo insieme a Egitto, Qatar, Usa e Russia, condizione respinta da Israele che avrebbe invece espresso la volontà di tornare nel nord della Striscia non solo per le donne, anziani e bambini, come inizialmente deciso. Su tutte queste incertezze incombe anche lo spettro di un mandato d’arresto da parte della Corte penale internazionale nei confronti di Netanyahu, del ministro della Difesa Yoav Gallant e del capo di stato maggiore Herzi Halevi per crimini contro l’umanità che potrebbe rovinare qualsiasi accordo. Almeno questa è la paura degli Stati Uniti e di molti dei suoi alleati. “Se dovesse accadere – tuona Netanyahu – sarebbe una macchia indelebile su tutta l’umanità, un crimine d’odio che aggiungerebbe benzina all’antisemitismo”.

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Il Messaggero

 
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