Occhio Rotondo 30. Arcaico | Marco Belpoliti – .

In un sottopasso che porta dal piazzale antistante la Chiesa di Sant’Antonio da Padova alla Stazione Garibaldi di Milano, un artista sconosciuto ha disegnato sui muri un grande graffito raffigurante una storia misteriosa e difficile da decifrare. Raffigura personaggi provenienti da un regno extraterrestre, figure filiformi mai viste prima, e per questo affascinanti. Per circa tre anni questi graffiti, quasi invisibili per la loro sottile traccia, rimasero sulla lunga parete della metropolitana senza che nessuno osasse aggiungere altri segni o sovrapporre i propri graffi a quella lunga partitura narrativa. Poi, finita la pandemia, il muro è stato ridipinto e i graffiti sono scomparsi, anche se dovrebbero essere ancora lì sotto il velo di vernice.

Questo disegno mi è venuto in mente all’improvviso mentre guardavo alcune fotografie di Brassaï esposte nella mostra a Palazzo Reale di Milano dal titolo Brassai. L’occhio di Parigi. Gli scatti sono presenti anche nel catalogo edito da Silvana Editoriale, a cura di Philippe Ribeyrolles. Nel corso di vent’anni, tra il 1930 e il 1950, il celebre fotografo ungherese (il suo vero nome era Gyula Halàsz) ritrasse innumerevoli graffiti sui muri di Parigi. Pubblicati su riviste surrealiste, questi scatti hanno reso famosi i segni selvaggi lasciati da diverse mani in luoghi secondari o appartati della capitale francese. La serie fu poi esposta al MOMA nel 1956 e pubblicata nel 1960 in un unico volume; da allora è stato ristampato più volte. Come scrivono gli studiosi, queste fotografie influenzarono gli artisti francesi e non solo. Come è noto, la loro diffusione negli anni Trenta sulle pagine delle riviste d’avanguardia provocò, insieme agli scritti di George Bataille e Michel Leiris, un ripensamento sull’idea di arte occidentale introducendo la nozione di arte selvaggia, che seguì l’avvento della cosiddetta Art Brut.

Ciò che colpisce di questi graffiti è proprio l’entità del graffio stesso. Sebbene Brassaï abbia incoraggiato la profondità degli scavi con un uso attento delle ombre e dei rilievi, alcune delle “immagini primitive” (come le ha definite il fotografo) sono vere e proprie incisioni realizzate non con i consueti strumenti grafici, i cosiddetti traccianti, che lasciano un segno sulla superficie del muro, ma scavando nel muro stesso. C’è una forza davvero brutale in questi segni. Se lo confronto con il segno sottile dell’ignoto artista del sottopassaggio sembrano il risultato di solchi profondi, di scavi effettuati con oggetti metallici e contundenti. La più nota di queste immagini di Brassaï, chiamata dal fotografo “Il Re Sole”, raffigura un volto umano con due orbite circolari vuote al centro, e due fori più piccoli: il naso; in alto si vede chiaramente una sorta di raggio che si estende dalla testa. Tutt’intorno al volto sono presenti tracce di altri segni in senso verticale e anche obliquo, come se una o più persone avessero scalfito la superficie di quella che sembra essere una pietra senza una precisa intenzione espressiva (la data della fotografia accertata da Brassaï è : “anni trentacinquanta”). Un altro graffito si intitola “Love” e raffigura un cuore, e sembra, a prima vista, disegnato nello stesso posto o su un muro simile. Nel catalogo, un testo di Silvia Paoli ricorda come il fotografo ungherese sia tornato a fotografare gli stessi graffiti dopo anni, annotando su un taccuino i cambiamenti avvenuti, come se si trattasse di un’opera collettiva, nonché il prodotto dell’azione di un unico autore.

Dopo che un pittore delle Ferrovie del Nord ha steso una mano di tempera bianca sul mio lavoro di artista anonimo, mi sono chiesto: l’ideatore della storia fantastica disegnerà un altro graffito qui? La risposta è negativa. Non vi furono ulteriori e successive decorazioni. Così quando ho visto le fotografie di Brassaï in mostra – anzi le ho riviste, visto che nel corso di qualche decennio le avevo osservate in libri, cataloghi e pubblicazioni – mi sono interrogato sull’azione reiterata dell’autore o degli autori dei solchi. Più che graffiti, secondo me, si tratta di vere e proprie sculture, dove invece di sporgere come nei bassorilievi classici le figure appaiono per sottrazione. C’è qualcosa di remoto in questa attività di scavo, una lotta con la materia stessa, per creare un’apparizione, per far emergere un segno dal nulla della superficie piana, incidendo, erodendo, graffiando. Forse è proprio questo che rende queste immagini così impressionanti.

Oggi i Writers, i graffitisti, hanno preso il posto degli incisori di Brassaï sui muri più o meno abbandonati delle nostre città. Nelle loro opere la scrittura sostituisce la scultura. La firma, inoltre, risulta essere il carattere dominante dei graffiti metropolitani, divenuti nel corso di pochi decenni arte da esporre nei musei. Il selvaggio è diventato civilizzato? La forza dell’immagine tramandata dallo scatto del fotografo ungherese sta nell’essere innanzitutto un ritratto non umano: una divinità misteriosa, egiziana, azteca o maya? Così come nel disegno sottile del sottopasso milanese emerge il bisogno di qualcos’altro, qualcosa di oltre l’umano, o forse meglio il preumano, qualcosa di arcaico e remoto, e allo stesso tempo anche futuristico, che è lo stigma dell’arte senza tempo apparsa nelle grotte 30.000 anni fa. A intervalli più o meno regolari appare in luoghi inaspettati: sui muri abbandonati, sulle pareti di un bagno, nei corridoi di uno scantinato, per ricordarci qualcosa che non ha nome come il misterioso dio di Brassaï.

Brassai, Il Re Sole, anni Trenta e Cinquanta, © Estate Brassaï Succession, Parigi

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