il nuovo libro di Arianna Boria – .

il nuovo libro di Arianna Boria – .
il nuovo libro di Arianna Boria – .

“Dammi solo un armadio gigante!” Carrie Bradshow ha detto a Mr Big, nel primo film della serie Sex and the City. E sì, il guardaroba gigantesco è un ottimo palliativo rispetto a un diamante. Ogni abito è un’epoca, ogni abito è un simbolo, è il modo in cui ognuno rappresenta se stesso. Ed è abbastanza stupido pensare che siano affettazioni superficiali. Come ha detto Meryl Streep nella schietta Anna Wintour (“Il diavolo veste Prada”): È bizzarro quanto sia assurdo confondere il “prendersi sul serio” con un’evidente avversione per la moda. Oltre al fatto che offre innumerevoli posti di lavoro. Perché la moda non esiste solo nei vestiti. È nelle idee, nella vita di tutti i giorni, come sulle passerelle più ambite, racconta ciò che viviamo e ciò che accade.

La moda come «tradizione e rivoluzione, del suo essere specchio di desideri, ambizioni, contraddizioni e rappresentazioni». È la frase che chiude la premessa di Moda e modi 1991-2021 (Battello Stampatore, disegni di Ugo Pierri, 147 pagine, 16 euro) a cura della giornalista Arianna Boria, da sempre attiva nel settore, a partire dall’omonima rubrica che da oltre 30 anni cura su Il Piccolo .

Articoli, di cui il libro raccoglie una selezione, che ripercorrono la storia del costume degli ultimi tre decenni, non solo quella dei più grandi stilisti. Attraverso le tendenze Boria ci regala l’arte, il costume, la sociologia e la politica. Insomma, un affresco sociale che dribbla tra leggerezza e profondità e guarda dritto al nostro rapporto con il mondo. Ad esempio, se una volta il lifting veniva incautamente nascosto, oggi lo si ostenta: “Il tweaking è una questione di salotto”. D’altronde basta aprire un qualunque social network per assistere a sfilate di labbra-maniche e guance di marmo.

Nel giro di un decennio siamo passati dalla censura all’esposizione. «Così come Carla Bruni – scrive sempre Boria – non ebbe problemi, in un abito blu di Roland Mouret con capezzoli in vista, seduta accanto all’allora presidente russo Dimitrij Medvedev e alla moglie». Sono tante le prove per le first lady, dallo “scrunchie” di Hillary Clinton alla pulizia del nuovo guardaroba da candidata alla Casa Bianca. E poi ancora Michelle Obama o la meravigliosa collezione di spille dell’ex Segretario di Stato Madeleine Albright.

Le spille e il loro rapporto con le donne potenti è un capitolo a sé, ma “Fashion & Modi” non risparmia certo niente e nessuno, in modo ironico e corrosivo ci mostra mancanze e (anche) ipocrisie politiche a partire dal look. Ad esempio, la mini, la gonna più trasversale dell’immagine femminile, è di destra o di sinistra? E la maglietta sotto la giacca? (Berlusconi ci ha pensato a sdoganarlo, mentre Bossi lo ha fatto con il giubbotto)? E a proposito di uomini e moda, in un articolo del 1995 si legge: «Come sarà il maschio per la prossima stagione estiva? Le sfilate non lasciano dubbi: disossate. Finiti doppiopetto o monopetto, sia quello micidiale di Berlusconi che quello da usciere di D’Alema. Sepolto vivo.”

Ogni metafora è legittima. Verso la metà degli anni ’90 la virilità era obsoleta. Era l’epoca delle giacche androgine e slim. Forse un residuo degli anni ’80, quando gli uomini si truccavano e gli eccessi – anti-ideologici – sembravano più autentici. Sempre all’interno di una scrittura dissacrante, tra Sedaris e Bennet, non mancano gli orrori: «Una camicia hawaiana, la penna stilografica nel taschino, il blazer con lo stemma, i bermuda, la camicia da cowboy. Tra gli accessori merita la borsa la bocca dell’inceneritore…”. Così come andrebbero incenerite le Birkenstock nobilitate, che restano pantofole pannoniche. A bruciare nel 2014 anche il format di Project Runway Italia su FoxLife, dove «Gli abiti non hanno fatto più storia dei concorrenti».

I tacchi, si sa, tradiscono un modo di essere (Monroe o Hepburn docet), mentre i gusti delle nuove generazioni si misurano sui centimetri degli shorts. Ma anche nella sfida tra Barbie e Bratz, bambole che rappresentano scelte di campo.

Un viaggio cronologico a ritroso, dall’inizio della rubrica, 1991, al 2021, dove non mancano considerazioni sulla neo-austerità in stile post-pandemia. Trent’anni di storia del costume da una prospettiva particolare: «Una città – scrive l’autore – che ha dato i natali o adottato stilisti famosi (Renato Balestra e Raffaella Curiel, Ottavio Missoni e Mila Schön), ma dove la moda non è mai avvenuta. Una città che tende inesorabilmente a vestirsi sempre nello stesso modo, pratico e impersonale”. Anche se lo stile, come diceva Lord Chesterfield, è l’abito dei pensieri. —

 
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