Il sublime in America | Alessandro Del Puppo – .

Con l’eccezione di un manipolo di stucchevoli ritrattisti dell’alta società di Boston, un “artista” nell’America di cent’anni fa era considerato poco più che un operaio e poco meno che un alcolizzato cronico. Il confronto tra Jean-Léon Gerôme e Thomas Eakins presentato da Leo Steinberg Altri criteri rimane tanto memorabile quanto spietato.

Ma poi le cose iniziarono a cambiare abbastanza rapidamente.

Se il detonatore non fu la mostra dell’Armory Show, caduta troppo presto (1913) e con modalità clamorose per non andare molto oltre il mero successo di uno scandalo, ce ne fu un’altra, tenutasi nella vecchia Europa, destinata a deplorare l’avanguardia -garde – è naturalmente ilEntra Kunst di Monaco di Baviera, 1937 – che paradossalmente riuscì al risultato opposto, cioè a convincere gli americani a difendere, tra l’altro, il primato di un’arte pura, non compromessa da cause di regime, soddisfatta della propria libera autonomia formale piuttosto che ridotta , secondo Clement Greenberg, a “vasi di comunicazione” e cioè alla propaganda.

E quindi, mentre in Europa opere di Nolde e Klee, Barlach e Beckmann venivano vendute quando le cose andavano bene per finanziare l’industria bellica e quando le cose andavano male venivano distrutte negli autodafé, negli Stati Uniti le avanguardie garde è stato raccolto, insegnato e abbiamo studiato. Al ritorno dall’Europa, molti artisti, fotografi e registi hanno potuto approfittare dei benefici del GI Bill per completare gli studi che erano stati interrotti o per intraprenderne di nuovi. Pittori e scultori hanno conseguito la laurea presso la Scuola di Belle Arti e non pochi di loro hanno conseguito la laurea in Lettere. È stata la prima generazione a raggiungere questo livello di istruzione e considerazione sociale. È quindi vero solo in parte, o comunque in modo piuttosto diverso rispetto al titolo capzioso, che New York ha rubato a Parigi l’idea dell’arte moderna, come afferma la seminale monografia di Serge Guilbaut (debitamente recensita da un artista Thomas Lawson in un «Artforum» di quarant’anni fa).

Ecco, allora, non sorprende osservare che l’autorevolissimo Erwin Panofsky, il più ammirato e stimato storico dell’arte tedesco del Novecento, rifugiato a Princeton dal 1933, l’Oppenheimer del metodo iconologico, a un certo punto si blocchi in una controversia con il pittore americano Barnett Newman.

Il pretesto era infatti tale (la presunta grafia errata del termine latino sublime) e la risoluzione non è priva di aspetti pedanti e oggi facilmente classificabili per quello che erano: sterili controversie accademiche. Solo che in gioco c’era molto di più della padronanza di una lingua, come spiega Pietro Conte nel libretto che raccoglie i materiali di questo racconto (Il sublime astratto2024).

Ben al di là dei toni infantili, colpisce la fiducia di Newman nella disputa con Panofsky: la sua argomentazione di volersi porre su un piano di parità, senza soggezione, fortificata non solo da un’incrollabile fiducia nel proprio lavoro ma anche da quello status di accettazione sociale del l’arte d’avanguardia, e in particolare l’arte astratta, impensabile senza la mediazione culturale condotta vent’anni prima da critici (Greenberg), collezionisti (Guggenheim) e storici dell’arte (Alfred Barr). Tutti personaggi che avevano percorso il cammino inverso rispetto a quello di Panofsky: dalla natia America alla vecchia Europa, per poi riportare queste esperienze all’interno delle strutture di mediazione (musei, università, gallerie) rese formidabili dal primato economico del sistema industriale e militare. superpotenza: e pazienza se ti imbatti nel Latinorum.

Per il vecchio Panofsky si trattava in realtà, molto semplicemente, di una malcelata incompatibilità con i linguaggi della pittura moderna. Non solo la risoluzione astratta (idiosincrasia condivisa da gran parte del circolo warburghese, guidato da Gombrich) che alla fine indebolì le fondamenta stesse del metodo iconologico; quanto la volontà e il desiderio, scambiati per sterile presunzione, di rintracciare le proprie radici come artisti moderni, e per così dire, nel cuore stesso del glorioso sviluppo estetico europeo.

Il sublime promulgato da Barnett Newman a partire da un articolo del 1948 (Il Sublime è adesso) non fu solo il tentativo di staccarsi da quella meccanizzazione del mondo descritta da Lewis Mumford. Era anche il recupero dell’eredità di una storia di artisti europei e la liquidazione del loro fardello: un’ipotesi di rinnovamento della pura plasticità di fronte all’incapacità di raggiungere il sublime «a causa del suo cieco desiderio di esistere nella realtà sensibile» – cioè del mondo oggettivo della figurazione delle cose, per quanto distorto dalla sensibilità delle avanguardie.

Ci vorrà del tempo per tradurre le intenzioni in immagini, ma così è avvenuto nei quindici anni successivi nell’opera di Newman, di Rothko, di Clyfford Still. E quando fu possibile vedere tutte queste opere, comparve un giovane storico dell’arte americano, Robert Rosenblum, che volle rifletterci un po’, facendo emergere questa categoria di “sublime astratto”.

Si trattava, in definitiva, di un modo per stabilire un possibile collegamento con alcune grandi esperienze del romanticismo europeo, da Turner a Friederich, il cui confronto con le estese campiture diafane degli americani veniva reso plausibile, anche se attraverso la mediazione di molte cautele (“si trasforma risultano simili”, “sembrano frutti”, “sembrano nascondere”, “non si può fare altro”, “sostanzialmente uguali”).

Cautele scomparse nel volume programmatico con cui nel 1975 Rosenblum raccontò questa storia con un titolo divenuto memorabile (Pittura moderna e tradizione romantica nordica: da Friedrich a Rothko) e subito criticato da alcuni altezzosi critici parigini per la formula frettolosa che ricordava loro un volo intercontinentale: il che è vero. Ma era un viaggio che andava fatto, un po’ come quell’altro viaggio, da Manet a Pollock, con cui Greenberg aveva aperto la storia del modernismo americano.

Ma poiché in conclusione è sempre bene andare oltre le polemiche, anche quelle condotte con Panofsky, è anche vero che di lì a poco, nell’ottobre del 1962, la mostra Il nuovo realista alla galleria Sidney Janis orientò il percorso dell’arte americana verso quella che tutti chiamano pop art. Tutto stava cambiando, ancora una volta.

Di fronte a quelli nuovi pittori volgari cosa restava allora dell’atmosfera rarefatta del sublime? Che dire degli emozionanti e spaziosi divisori colorati di Newman?

La risposta è chiara: è il fondamento eterno del trascendentalismo di Emerson e Thoreau. Per rendersene conto, a quel punto, era necessario uscire dai cunicoli e raggiungere il lavori di sterro diffusi dagli artisti più giovani sul suolo americano.

 
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