perché nessuno dice il motivo scandaloso del suo successo? – .

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La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

“C’è ancora domani”, l’ho visto ieri. Il blockbuster di Paola Cortellesi è uscito nelle sale lo scorso anno. L’ho guardato tardi, come molti di voi, in TV questa settimana. Anche la critica e il pubblico sono divisi internamente. Oggi in Italia i tifosi litigano su tutto. C’è chi lo definisce un capolavoro e chi lo definisce horror. (E molti restano ancora convinti che si trattasse di rigore.)

Operazione intelligente e deludente? Non sarei così duro. Il successo non è una colpa. E comunque è da interpretare un quasi trionfo (candidato per 19, diciamo 19, statuette del David di Donatello). E questi tre ingredienti non bastano a spiegarlo: la simpatica popolarità del personaggio Cortellesi, il tema incandescente sul braciere delle divisioni ideologiche (e delle polarizzazioni politiche), la rilevanza psicologica della cronaca nera nell’immaginario di un’intera nazione. In effetti in tanti altri precedenti simili nel cinema italiano non è andata così bene come al Paola nazionale.

Ergo, la vedo diversamente. Credo che il successo della storia sia dovuto a ciò che è invisibile in essa. Nella forza di un significato che tocca a livello subliminale l’inconscio femminile di milioni di uomini e donne. Per la semplice e sorprendente ragione che questo film non è quello che sembra. Non è eminentemente un’opera di denuncia del patriarcato e della violenza di genere, né la rappresentazione del dramma sociale per la liberazione delle donne/mogli, nella guerra contro le discriminazioni e le disuguaglianze. È innanzitutto la storia della cosa più antica e potente della storia dell’umanità: l’amore di una madre per sua figlia. Una missione, più che un sentimento, un’ossessione, più che una magia. Del resto, non è un caso che l’atto recitativo perfetto e magistrale sia quello dell’attrice che dà vita a sua figlia, autentica protagonista predestinata di una narrazione segreta.

La madre si sacrifica, lavora come un mulo e mette da parte i soldi per gli studi della figlia, mette da parte la propria felicità, non fugge con l’amato lasciando soli i genitori, copre la figlia, si prende le colpe e le botte per una disattenzione da parte della giovane, commette un delitto al fine di sottrarre la figlia ad un destino presumibilmente ignobile simile al suo, distrae dalla propria realizzazione individuale, trascende l’atavica necessità di garantire la propria incolumità fisica. Insomma, nulla potrebbe essere più lontano da un intransigente femminismo di maniera. Ecco lo scandalo (che non diciamo).

Che ne fosse consapevole o meno, che questa fosse o meno la sua intenzione, Paola Cortellesi ha messo in scena la forza prodigiosa dell’abisso, il motivo sacro del concepimento, della gravidanza, della nascita, della cura, della maternità universale, nella trama di una sfuggente complicità tra due donne. In una spiritualità animale e laica, desiderata da una religiosità e bellezza irraggiungibili. Dalla creazione di tutte le cose.

Alla luce di questa osservazione, non mi convince del tutto l’atteggiamento di chi denuncia la mediocrità dell’oggetto artistico ovunque decantato nel deserto della critica (oggi subordinata alla logica del botteghino), di chi giudica l’opera in base il livello di drammaturgia e sintassi, di chi vede una regia irrisolta che decide la caratterizzazione enfatica dei personaggi nelle pose, nei movimenti e nella mimica, che finiscono per sprofondare in un ingorgo di luoghi comuni e luoghi comuni privi di espressività recitativa.

Cortellesi è Paola, non è Rossellini. La mescolanza di stili neorealistici e codici sognanti e sognanti appartiene alla sua opera autoriale. Il bianco e nero calligrafico, le ambientazioni suburbane, le atmosfere dei paesi ancora dipinti dal dopoguerra, il registro scelto nella rappresentazione non rappresentata delle scene di violenza fisica, tutti questi elementi rischiano a volte di perdersi tra le nebulose di esitazione stilistica e la creatura potrebbe apparire irrisolta, caricaturale nel cuore frammentato di una coreografia insensata e surreale e grottesca anche nei balletti e nei dialoghi. Ma questo è. Piace o no.

Alcuni spettatori, infine, si dicono delusi e sconcertati dal finale in cui, nonostante alcune allusioni ad hoc suggestive e fuorvianti, la fuga d’amore non sboccia con la dolcezza dei fiori giovanili, la fuga dall’oppressione e dalla violenza domestica. No, niente di tutto questo, la protagonista, nella sua parabola terrena, come una grande svolta? Fuggire in gran segreto in un amato seggio elettorale, per esprimere finalmente, non il suo diritto all’incolumità psicofisica, ma il suo diritto di scegliere tra Monarchia e Repubblica. Una possibile declinazione di una possibile rivoluzione individuale e collettiva, un atto simbolico e consapevole di ribellione ed emancipazione delle donne italiane. Forse.

Insomma, qualcuno ha trovato il film sbagliato a livello linguistico e formale e a tratti surreale, lento, perfino patetico. L’amavo molto tiepidamente. Senza clamori interni. Non è un culto. Non è un capolavoro se non Felliniano. Ma credo che, in virtù di alcuni estremismi ideologici e intellettualismi narcisistici di nicchie autoreferenziali, i giudizi dei pochi detrattori non fossero equilibrati. Chiavi interpretative aggrappate a un’estetica superata e nostalgica, anticonsumista e sprezzante e sprezzante verso l’unica idea dominante e oppiacea di mercato e di intrattenimento non aiutano mai.

Credo che il regista intendesse tessere una partitura basata sul sarcasmo. E che, senza volerlo, ha filmato come con un cellulare la prima scena della nascita di tutto: il sorriso segreto tra due donne. Una madre e sua figlia. E questo basta. E questo è tutto.

 
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