Una storia d’amore americana – Film (2024) – .

Una storia d’amore americana – Film (2024) – .
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Revisione di Rossella Farinotti

Venerdì 5 aprile 2024

Le opere pittoriche di Edward Hopper hanno sempre rappresentato un momento particolare nella storia dell’arte. Agli inizi del Novecento, quando il giovane studente americano cominciò a dipingere le sue piccole tele e a creare illustrazioni che raccontavano la vita quotidiana, l’avanguardia artistica si faceva strada attraverso la sperimentazione e forti rotture formali ed estetiche. È l’epoca di Duchamp, Picasso e gli altri. E Hopper, consapevole di ciò che accadeva attorno a lui, decide di rappresentare le città, le case, ritratti di donne solitarie e indipendenti, alla maniera degli impressionisti – che aveva visto e assorbito vivendo a Parigi, città che amava – , ma con un rigore nell’inquadratura, quasi cinematografico, e nella resa del colore (sia olio che acquarello, fino al disegno), che lo porta al di là di ogni corrente, di ogni movimento artistico.

Hopper è, quindi, un creatore solitario. Di origine borghese, con madre fortemente cattolica, Edward studiò arte a New York, per poi andare – con la stretta approvazione della madre – a studiare a Parigi, dove guardò la grande città luminosa e speciale, non frequentò il mondo bohémien. d’arte, e sperimenta un amore non corrisposto, che dura dieci anni.

Questo episodio della sua vita, testimoniato da lettere recentemente scoperte, segna il percorso psicologico dell’artista, già di carattere solitario e introspettivo. A Parigi colleziona il bello, per poi ritornare a New York, dove le strade, le luci e le ombre, il ponte di Brooklyn, i bar, le figure solitarie che vagano per le strade, diventano fonte di ispirazione per la sua pittura. La figura femminile diventa importante nel suo lavoro. “Summer interior” (1909), ora nella collezione del Whitney Museum di New York, rappresenta una donna seduta per terra, con il volto nascosto, che guarda dall’alto. La figura indossa solo una maglietta succinta; probabilmente ha appena terminato l’atto sessuale; un atto carnale, forse violento, che l’ha ferita e lasciata ai piedi del letto in una stanza d’albergo. Alcuni studiosi hanno interpretato questa figura come autobiografica. Hopper si sentiva violato, abusato, addolorato. E si ritraeva come una figura femminile.

Qui gli episodi e le narrazioni del pittore non sono solo squarci di realtà, ma indicano sempre una forte introspezione. Solitudine, tempo che si è fermato, incomunicabilità, tagli espressivi particolari, segnali misteriosi… Le tele di Hopper sono composte da questi elementi. Il pittore che rappresenta l’idea della vita quotidiana. I paesaggi apparentemente freddi e vuoti – si pensi agli iconici ritratti di case (forse le sue opere più riconoscibili e conosciute) – che hanno sempre il titolo di chi li abita. Le case americane, da quelle in mattoni di New York, alle ville di fine Ottocento di Cape Code, sono dipinte come in una fotografia, ma dove le ombre e le luci, minuziosamente dipinte, e i colori che richiamano le diverse sfumature del giorno o notte, sono rappresentazioni di stati d’animo.

Come in un film di Hitchcock, da cui Hopper attinge molto e, viceversa, da cui il regista inglese realizza un omaggio all’iconica casa di moda Psicopatico, lo spettatore di un dipinto di Hopper percepisce una storia, intuisce l’umano, anche se non lo vede. È straordinaria la capacità narrativa che Edward Hopper inserisce in pochi, scarsi, studiati elementi.

Una delle opere più famose è “The nighthawks” (1942), conservata all’Art Institute di Chicago. Qui Hopper dipinge l’interno di un bar. Non sono presenti elementi distintivi. La scena appare quasi metafisica: possiamo vedere l’interno dove una donna dai capelli rossi è accanto a un uomo che fuma una sigaretta. Il barista forse sta preparando qualcosa. Dietro di lui due grandi contenitori d’acqua, o di caffè. E, vista da dietro, c’è un’altra figura maschile. La vetrina è molto grande. Non ci sono aperture, porte o finestre da cui uscire. La strada, probabilmente di New York, ha un sapore particolare, morbido, misterioso, i toni sono verdi. Quest’opera è stata ripresa, nel corso della storia, da registi (pensate al cinema noir, quanto traeva spunto dalle vedute e dalle atmosfere di Hopper!), fino alle parodie (anche i Simpson popolano il bar di “The Nighthawks”).

Queste figure misteriose hanno sempre fatto parte dell’immaginario documentaristico di Edward Hopper, fin dai suoi primi dipinti. Si pensi a “Soir bleu” (1914), un dipinto giovanile dove l’influenza impressionista è tangibile: il protagonista è un clown, probabilmente l’artista stesso; o, qualche anno dopo, “Morning in a city” (1944), dove una donna è seduta ad una tavola calda, da sola, e beve una tazza di caffè. Come già scritto, le figure femminili ricorrono molto nei dipinti di Hopper.

La modella è sempre stata sua moglie, ex compagna di classe e, successivamente, suo sostegno e manager per tutta la vita. Josephine Nivilson era una pittrice. I suoi dipinti e i suoi acquerelli non potevano competere con quelli di Edward. Ma la personalità di suo marito la assorbe. La donna, consapevole e attenta, viene sopraffatta dalla solitudine e dal carattere duro di Hopper, tanto da dichiarare il suo fallimento come pittrice. Da New York a Cape Code i due non si lasciano mai. Tra competizioni, conflitti, viaggi di ispirazione e amicizie coltivate solo da Josephine, Hopper dipinge sempre. Pochi quadri all’anno, a volte anche solo due. Le illustrazioni e i disegni ad acquerello, invece, vengono realizzati quotidianamente. Spesso, però, Hopper li distruggeva.

La produzione artistica di Hopper è quindi piccola e si trova in pochi musei e istituzioni al mondo. Dalla National Gallery di Washington, a Chicago o al Moma. Piccole tracce di bellezza, di paesaggi americani, di riflessioni visive e introspezioni dell’animo, soprattutto femminile; i tetti, gli abbaini, i campi, le pompe di benzina, i bar semivuoti, i colori accesi degli abiti femminili, gli sguardi e le pose immobili rivolte verso l’esterno…. sono questi i frammenti che Hopper possiede, tracce poi tracciate, lasciate lungo il suo cammino, da pittore rigoroso di una quotidianità immobilizzata.

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