Carmilla in linea | Ricostruire l’America: Guerra Civile di Alex Garland – .

Di Sandro Moiso

– Chi sei?
– Noi siamo americani.
– Sì, che tipo di americani? (Guerra civile2024)

Tutto è racchiuso in questo brevissimo dialogo, racchiuso in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dall’inglese Alex Garland (classe 1970), non solo il significato di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno precipitato il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, cova sotto la cenere di ciò che resta delSogno americano.

Un film che ha già fatto discutere e che in un panorama politico e culturale soffocato come quello italiano, diviso tra l’intimità cinematografica troppo spesso mascherata da impegno civile e il blando dibattito “antifascista” sulla censura fino all’ancor più insipido monologo di chi vorrebbe atteggiarsi a nuovo Matteotti, esplode letteralmente sullo schermo e nello sguardo dello spettatore. Con una forza e una virulenza lontane da ogni prodotto della nostra vacua e rispettabile intellighenzia.

Alexander Medawar Garland, scrittore di romanzi ed ex sceneggiatore di 28 giorni dopo (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle, non è la prima volta che porta sullo schermo le possibili conseguenze di una violenza a lungo repressa e negata che può però trasformarsi in un’autentica guerra interna nelle società che si credono più avanzate e liberale. Ma il tema dell’opera che gli diede fama di sceneggiatore era ancora legato ad un contesto di carattere approssimativamente fantascientifico e anticipatorio, Guerra civile ci parla essenzialmente del qui e ora.

Il viaggio del veterano fotoreporter di guerra Lee, dei due giornalisti Joel e Sammy e dell’aspirante e immatura fotoreporter Jessie, non è un viaggio in un futuro distopico, ma immerge lo spettatore nelle contraddizioni di una guerra civile latente già visibile oggi, per gli osservatori più attenti, tra le pieghe di una società nata da una guerra civile mai del tutto risolta e che da anni è tornata a presentarsi come un’inevitabile necessità storica1.

Sono 758 miglia che separano New York, punto di partenza della squadra di reporter, da Washington, punto di arrivo previsto per un colloquio finale e incerto con un Presidente degli Stati Uniti aggrappato fieramente al potere, ma ormai circondato dalle truppe di il Front Western, dell’alleanza tra Texas e California (i due stati più grandi dell’Unione), che mantenne le strisce bianche e rosse della bandiera nazionale ma ridusse le stelle a due, e della Florida Alliance.

New York è sconvolta dalle proteste per le misere condizioni di vita e dagli attacchi suicidi da parte delle più disperate tendopoli che si sono sviluppate nelle strade dell’ex Grande Mela, sul modello di quelle attuali e reali di Los Angeles. Quindi il viaggio, per ragioni di comodità, si dirigerà prima verso ovest per poi ritornare ad est verso Charlottesville in Virginia. Quella Virginia che, nel 1862, durante la “storica” guerra civile vide un’importante vittoria per gli eserciti secessionisti del Sud e che da lì, sotto la guida del generale Lee, decise di attraversare il Potomac per marciare su Washington.

È un paesaggio di autostrade piene di veicoli civili e militari distrutti e abbandonati, di centri commerciali diventati zone di guerra e di campi profughi organizzati in stadi; di crudeltà di ogni genere compiute da un partito contro l’altro, anche se è ben inteso che in gioco ci sono ben più di due partiti, spesso animati da motivazioni diverse eppure guidati dalla stessa ferocia. Di cadaveri abbandonati nei parcheggi centro commerciale oppure in fosse comuni e cosparsi di calce o con corpi torturati, umiliati e offesi in ogni modo, appesi ai cavalcavia se non negli autolavaggi. Di omicidi a sangue freddo dopo interrogatori sommari o senza nemmeno averne bisogno: il Terra dei liberi è fotografato, letteralmente, in tutta la sua possibile barbarie, mentre la musica dei Suicide, da RocketUSA A Sogna, tesoro, sognaserve benissimo come viatico per l’impresa2.

È come se la guerra e la violenza esportate per decenni dall’impero occidentale nel resto del mondo, spesso sotto le sembianze di colpi di stato e guerre civili, avessero deciso di ritornare nel grembo materno, per divorare il corpo materno fin dall’inizio. l’interno . Eppure, anche se qua e là compaiono cecchini con le unghie smaltate, le camicie hawaiane dei Boogaloo Boys o gli sguardi esaltati che ricordano gli attentatori di Capitol Hill, non sono le milizie locali o le armi “fatte in casa” a determinare il gioco di ruolo, ma forze armate ben addestrate al compito di uccidere e distruggere, dotate di un arsenale e di una potenza di fuoco che comprende armi pesanti, carri armati, elicotteri, Humvee corazzati e tutti gli altri tipi.

L’esercito si è evidentemente disintegrato come la Guardia Nazionale, ma la macchina da guerra e i suoi armamenti sono rimasti ben oliati e funzionanti e così, mentre le ultime truppe lealiste difendono Washington e il presidente annuncia più volte, come sia necessario anche in questi giorni per quanto riguarda l’Ucraina e il Medio Oriente, la prossima storica vittoria delle forze del bene, tutto è distrutto o violato, insieme alle ultime difese, al Lincoln Memorial e alla stessa Casa Bianca.

La violenza che si è verificata è molto più terribile di quella immaginata all’epoca dei film che prevedevano le invasioni sovietiche e nordcoreane degli Stati Uniti, come Alba rossa (Alba rossa, 1984) di Giovanni Milius. Quarant’anni non sono passati invano, né nella storia reale del declino dell’impero né, tanto meno, per l’immaginario cinematografico americano che spesso, anche laddove non osa parlare della possibile guerra civile che attende l’impero, non smorza certo i toni di critica al dominio imperiale sul resto del mondo, sia nelle serie televisive che, in maniera mediata dalla fantascienza epica, in produzioni come Dune I e II del canadese Denis Villeneuve.

Il film non ci dice a quale schieramento appartiene il presidente, se repubblicano o democratico, del resto non è necessario, anche se sicuramente molti critici locali benpensanti e gran parte del pubblico avrebbero preferito una situazione più definita, per poter almeno schierarsi dalla parte di una delle due parti coinvolte. Ma ciò che conta davvero è che il dollaro americano ha perso valore e che la vita potrà essere considerata normale solo una volta accettata la normalità della guerra.

La produzione anglo-americana è seria. Sa che una guerra civile di tali proporzioni non è il prodotto di una semplice e retorica battaglia tra democrazia e autoritarismo o riconducibile a una “lotta di classe” ridotta a teatro tra due classi facilmente riconoscibili e “pure” in conflitto: borghesia e proletariato. Come già affermato in un testo di qualche anno fa, la categoria della guerra civile può infatti costituire:

un elemento più adeguato per leggere un insieme di contraddizioni e lotte sociali che si sono manifestate a livello internazionale con una certa frequenza e intensità negli ultimi anni, la cui eterogeneità organizzativa e di finalità difficilmente può ancora essere confinata esclusivamente all’interno dei più tradizionali ambiti , e forse riduttiva, formula di lotta di classe o di guerra. Contraddizioni sul piano sociale, economico e ambientale messe in atto da molteplici attori, alle quali gli Stati, a prescindere dalla loro posizione geopolitica, hanno quasi sempre dato risposte repressive e autoritarie3.

Ma potrebbe trovare la sua espressione definitiva proprio negli Stati Uniti, come indica il film di Garland. Anche se a suggerirlo non è solo Garland, ma anche diversi studi attenti sulla realtà americana4.

Tralasciando, per ora, il contenuto più ovviamente politico e sociologico del film, oltre a sottolineare l’essenzialità di una regia di un film di medio costo e la bravura degli interpreti e degli attori, da Kirsten Dunst (Lee), Wagner Moura ( Joel), Stephen McKinley Henderson (Sammy), Cailee Spaeny (Jessie) fino a Jesse Piemons (nei panni di un soldato ultranazionalista), quello che qui va ancora sottolineato è un altro aspetto importante delle vicende narrate.

Questa è la differenza tra fotografare la realtà della guerra o descriverla in un articolo. La differenza tra lo sguardo e la parola e la diversa connessione tra l’occhio e la mente rispetto a quella tra la capacità di scrivere e la riflessione necessaria per metterla in atto. La prima azione è immediata e non può permettersi il lusso della mediazione, mentre la seconda fa della capacità di mediazione interpretativa il suo punto di forza. In altre parole: il reporter, se vuole, può reinventare la guerra, eliminando ciò che potrebbe ferirlo di più, mentre il fotoreporter deve necessariamente accettarne gli aspetti più dolorosi, altrimenti non riuscirà a svolgere il suo ruolo.

Questa considerazione semplice e immediata sembra riflettersi nel carattere dei personaggi, nelle loro scelte e nel loro destino. Apparentemente più cinica e distaccata, appare la fotoreporter più anziana, pienamente capace, però, di trasmettere al suo giovane “erede” la capacità di catturare l’attimo attraverso lo scatto, costi quel che costi sia a livello fisico che emotivo. Un mestiere sporco in cui l’“attimo fuggente” è tutto e richiede di saper disconnettere la sensibilità dalla disposizione ad agire automaticamente attraverso la macchina fotografica, anche a costo di perdere la propria umanità, proprio per trasmettere al grande pubblico la disumanità di ogni guerra . Oppure tenerlo dentro di sé, fino a esserne dilaniato, come accade a Lee, che proprio in virtù di ciò è, però, ancora l’unico capace di un gesto estremo.

Mentre il giornalista può ancora prendersi del tempo per raccontare i fatti attraverso la mediazione della scrittura. In viaggio, sul campo di battaglia o in uno di quegli alberghi per giornalisti tipici delle zone di guerra che nel film, almeno per una volta, non sono più solo in Medio Oriente, in Asia, in Africa o ai confini orientali dell’Europa, ma in un New York in cui l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 sembra costituire, più che un avvertimento o un monito, solo un pallido ricordo, mentre il cratere della Ground Zero sembra aver davvero inghiottito tutto definitivamente.

 
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