Voce, di Yukiko Mishima. La recensione – .

Per Yukiko Mishima contano solo i microdrammi quotidiani della vita, le inflessioni (emotive, esistenziali e anche narrative) che prendono forma nelle maglie di una routine apparentemente immobile e placida, dove la progressione statica del tempo e dello spazio si sovrappone a quella emotiva universo di personaggi completamente assorbiti nella loro fragilità. Quasi come se fossero bloccati in a loop traumatico perenne, che non lascia spazio ad alcuna fantasia di vitalità, proprio perché non sembra presentare – almeno a prima vista – una conclusione né una possibile risoluzione. E nel caso di un film come Vocecaratterizzato da tre segmenti solo tematicamente (e quindi non narrativamente) interconnessi, l’avvento del lutto interviene a filtrare queste domande: e la necessità, da parte dei personaggi che lo vivono, di non cedere al peso di quella sofferenza che rischia, inesorabilmente, di schiacciarli.

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Sebbene le tre storie che compongono questo trittico non abbiano alcuna figura in comune, tanto meno la trama, il sentimento di unità e coesione su cui si fonda Voce costruisce il proprio disegno è dato dalla condivisione di uno stesso tema, ma soprattutto dalla naturalezza con cui questi segmenti veicolano i temi di riferimento secondo la stessa strategia drammaturgica. Sebbene i tre protagonisti appaiano separati da evidenti differenze, personali e puramente identitarie, ciò che li pone in continuità tra loro è proprio la natura “omologa” dei conflitti che stanno attraversando, e la direzione univoca verso cui si dirige il cineasta. i loro processi di risoluzione traumatica. In questa prospettiva, il padre transessuale (Maki Carrousel) incapace di metabolizzare la perdita del primogenito, il pastore di mezza età (l’iconico Shō Aikawa) impegnato a ricucire il rapporto con la figlia, e la giovane donna soffocata dalle conseguenze degli abusi. infantile (interpretata dalla straordinaria Atsuko Maeda di Fino ai confini della terra) sono tutti nella stessa condizione esistenziale, nonostante le loro storie – sia di vita che di “narrativa” – seguano percorsi singolari ed esclusivi.

Ecco allora Mishima, per evitare di incastrarsi Voce nelle incongruenze (comunque presenti) in cui solitamente i film a episodi rischiano di sprofondare, si parte da una condivisione della matrice traumatica, per offrire una connotazione materiale al conflitto, che assume così non solo i tratti fisici e “tattili” con cui il personaggi (e spettatori) possono interfacciarsi, ma essa appare anche ripetuta nel tempo, così da incrociarsi contiguamente, come un filo comune, i tre segmenti di cui è composta la narrazione. È così, allora, che nelle prime due parti del film, il mare diventa il simbolo del trauma, l’elemento scenografico – e simbolico – che ricorda ai protagonisti la natura del loro dolore, consentendo loro, grazie alla sua staticità e presenza immanente (visualizzata sul campo nel segmento iniziale, e declinata nell’orizzonte sonoro nell’episodio successivo) per affrontare la materializzazione stessa della sofferenza che li affligge. E offrire, allo stesso tempo, un elemento fisico che permetta alla storia di esibire un radicale scontro di forze; e per chi guarda di investire emotivamente in un conflitto che appare sempre più credibile e coeso.

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Una strategia, questa appena delineata, che ritorna nell’atto finale – il più ampio e geniale dei Voce – sotto forma di immagine disegnata, con il ritratto del volto della giovane Reiko che porta alla luce, agli occhi della donna, la matrice stessa del suo disaccordo: cioè la difficoltà di percepire la “paternità” del suo corpo. E sebbene i due segmenti iniziali appaiano decisamente più piatti e meno evocativi della frazione finale, Mishima convoglia nel terzo episodio tutti gli esempi migliori del suo cinema: finché non trova nella complicità tra due persone emotivamente distanti, la ricetta con cui sviscerare l’intimità. di anime così spietatamente solitarie.

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