Le distorsioni del sogno americano in tre film – Alessio Marchionna – .

Le distorsioni del sogno americano in tre film – Alessio Marchionna – .
Le distorsioni del sogno americano in tre film – Alessio Marchionna – .

20 maggio 2024 14:33

Emanuele Mengotti cominciò a conoscere gli Stati Uniti dai finestrini dei pullman e dalle panchine delle stazioni degli autobus. A 22 anni, dopo la laurea, comprò un biglietto di andata e ritorno per New York. Da lì prese un volo per la California con l’idea di fare il viaggio a ritroso, da una costa all’altra, attraversando il sud, facendo una deviazione verso il Messico, risalendo verso Chicago, le Cascate del Niagara e il Canada, per poi ritornare in il punto di partenza. Ha viaggiato con gli autobus Greyhound, che effettuano tratte a lunga percorrenza in tutto il paese e sono piuttosto economici, oppure in autostop. Viaggiando di notte o dormendo nelle stazioni per risparmiare sull’alloggio, si è subito confrontato, senza filtri, con la parte più dura, e interessante, degli Stati Uniti.

“In quelle situazioni entri in contatto con tante storie, spesso difficili, che raccontano di un popolo composto in gran parte da nomadi. Si sentono tante storie toccanti, parlando con il proprio compagno di posto o guardando fuori dal finestrino, vedendo ad esempio un figlio partire per il servizio militare, con in mano tanti fogli stampati di biglietti, ciascuno per ogni tratta”.

Tornato in Italia, Mengotti chiede e ottiene la green card, il visto che gli permette di vivere negli Stati Uniti per un periodo di tempo illimitato, e dopo poco si trasferisce a Los Angeles con l’idea di lavorare nel cinema. La sua storia personale suggerisce che in un certo senso fosse predestinato. “Sono nato nel 1986 al Lido di Venezia. Fin da bambino ho ricordi della mostra del cinema, che si tiene ogni anno a settembre. Sono cresciuto in teatro prima come spettatore, poi con la possibilità di partecipare al festival facendo piccoli lavoretti, così ho avuto l’opportunità di capire come funzionava questo mondo.”

Il suo interesse per il cinema, prima per la recitazione e poi per la regia, cresce durante gli anni universitari a Bologna. All’inizio non pensava ai documentari. “Mi affascinava l’idea di immaginare mondi, di usare linguaggi, di mettere insieme atmosfere che fossero molto evocative”. Mi è sembrato naturale provare a farlo negli Stati Uniti. “Quel Paese mi ha sempre affascinato, una passione che arriva naturalmente dal cinema, ma anche dalla letteratura. E da tutto quello che la cultura americana ci ha raccontato nel corso dei decenni”.

Giunto a Los Angeles Mengotti fece diversi lavori sui set di piccole e grandi produzioni, ma la svolta arrivò esplorando le zone desertiche della California, dell’Arizona, del Nevada e dello Utah. Durante uno di questi viaggi si ritrovò a Slab City, una città improvvisata di tende e roulotte nel sud-est della California. Un luogo che per certi versi ricorda la Bombay Beach descritta dalla regista Susanna della Sala (le due location sono abbastanza vicine). Vi vivono persone molto diverse – hippy, patrioti, artisti, neonazisti, predicatori – ma accomunate dalla necessità di essere ai margini, lontani dalla cultura dominante degli Stati Uniti, che considerano una nuova Babilonia.

Da quell’esperienza è nato il primo documentario, Ad ovest di Babilonia, presentato al Biografilm Festival 2020. L’idea iniziale di Mengotti e Marco Tomaselli, direttore della fotografia, è stata quella di raccontare il luogo intervistando i suoi abitanti. Poi si sono resi conto che avrebbero ottenuto un effetto più potente, e più vicino alla sensibilità artistica del regista, se si fossero limitati a posizionare la macchina da presa davanti ai protagonisti, permettendo loro di raccontare la loro storia con spontaneità. Loro stessi sono rimasti sorpresi dal risultato. “Ci siamo resi conto che in quel posto, completamente fuori da questo mondo e fuori da ogni tipo di regola, le persone più strane eravamo noi due. Persone che sono state viste diverse per tutta la vita in quel momento sono state attratte dalla macchina fotografica e sono rimaste affascinate da due persone come noi, molto lontane dal loro ambiente. Avevano una gran voglia di raccontarsi e di essere ascoltati. Questo perché sono sempre stati ai margini e raramente qualcuno si è interessato alle loro vite”.

La macchina da presa è sempre molto vicina ai volti dei protagonisti – segnati dal sole, dal vento, da anni vissuti in un contesto ostile – che raccontano la loro storia con le espressioni prima ancora che con le parole. Questa interazione così naturale è uno dei motivi per cui il documentario funziona e affascina. Un’altra riguarda la colonna sonora realizzata da Paolo Cognetti, che utilizzando diversi registri – a volte drammatici, altre volte richiamanti un immaginario magico ed evocativo – si fonde perfettamente con i suoni del luogo e quindi con il suo spirito.

Il secondo documentario di Mengotti sull’Occidente è Rosso la sera, uscito nel 2022 e vincitore del premio del pubblico e del premio Arci Ucca a Biografilm. Apparentemente è molto diversa dalla precedente: dal deserto si passa a Las Vegas, per certi versi la massima espressione della follia urbana, una città che esprime proprio la cultura da cui sono fuggiti gli abitanti di Slab City. I protagonisti principali sono Steve, un uomo che vive ai margini della città, Mindy, candidato repubblicano trumpiano alle elezioni locali, e Mike, un medico in servizio durante i primi mesi della pandemia di covid-19. In realtà le due opere sono unite da un filo abbastanza chiaro: “Si parla sempre del confine degli Stati Uniti, del sogno americano in tutte le sue declinazioni e dell’archetipo americano. Mostrano modi diversi di vivere il sogno americano”.

La storia di Steve descrive questa connessione e comprende le distorsioni, geografiche e culturali, del West americano. Come molte città nate dal nulla nel deserto, Las Vegas ha un rapporto molto sbilanciato con l’acqua: da un lato teme costantemente di rimanere senza acqua, dall’altro rischia di essere travolta dall’acqua quando ci sono temporali e forti temporali. Per far fronte ad inondazioni potenzialmente devastanti, anni fa le autorità costruirono una rete di migliaia di chilometri di tunnel che corrono sotto l’intera città, in modo che l’acqua possa defluire senza causare danni. Migliaia di persone vivono in questa rete di tunnel. “Lo fanno per diversi motivi”, spiega Mengotti. “Cercano rifugio ma soprattutto cercano di stare lontani dalla vista della polizia. Las Vegas è meta di tanti poveri che provengono da tutti gli Stati Uniti. Coloro che vivono nei tunnel, come Steve, occupano l’ultimo gradino della scala sociale”.

Difficile immaginare un’esistenza più precaria: quando piove molto, l’acqua comincia a scorrere nei cunicoli e chi vive all’interno rischia di essere travolto. L’unico modo per sopravvivere è sapere in anticipo se pioverà. Steve vive così da più di quindici anni, almeno sei volte ha perso tutto e ha dovuto ricominciare da capo. Mentre tengono d’occhio le previsioni del tempo, lui e il suo compagno decorano il tunnel, ne dipingono i muri, cercano di ritagliarsi uno spazio vitale mentre il resto della città li rifiuta. “Steve è il moderno uomo di frontiera. Vive al confine tra la città e il selvaggio west. Non vuole allontanarsi dalla Strip di Las Vegas, la strada dove si concentrano i casinò e i club della città, ma allo stesso tempo è costretto a vivere in una situazione molto più simile a quella di chi ha scelto il deserto”.

La terza parte della trilogia è il progetto a cui Mengotti sta lavorando in questi mesi, una coproduzione tra Italia e Belgio. Si tratta di un documentario ambientato a Trona, una cittadina della California che, come molte altre località statunitensi, è passata dalla gloria all’oblio nel giro di pochi anni. Trona si trova in uno dei luoghi più ostili degli Stati Uniti geograficamente e climaticamente, ma negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta crebbe notevolmente grazie alle attività attorno ad una miniera. Quei soldi hanno permesso di costruire una città che rappresentava perfettamente il sogno americano.

Alcune delle Polaroid scattate da Mengotti.

«C’erano bar, cinema, una scuola con insegnanti di altissimo livello e gli stipendi erano ottimi», racconta Mengotti. “Ma negli anni ’80 e ’90, con la crisi mineraria, il velo del sogno americano si sollevò e rivelò ciò che si nascondeva sotto. Adesso a Trona la vita è molto dura, ma c’è ancora gente che vive lì inseguendo quel sogno americano. E questo è molto interessante, perché il posto offre grandi spunti di poesia e magia. Vorrei raccontare le storie dei giovani di quella comunità, che crescendo devono fare i conti con una serie di problemi, tra cui la violenza domestica e la tossicodipendenza”. Per trasmettere la realtà di una città sospesa nel tempo e nello spazio, Mengotti ha deciso di girare con telecamere VHS.

Il contrasto tra passato e presente, tra realtà e percezione, si ritrova anche in un altro progetto del regista, che non riguarda il cinema ma la fotografia. Quando è in viaggio per girare i suoi film, Mengotti porta sempre con sé la sua Sx-70, una Polaroid lanciata per la prima volta negli anni Settanta: “Volevo andare alla ricerca del mito dell’Occidente, che in realtà ha poco a che che hanno a che fare con il vero West, quello che i pionieri affrontarono quando arrivarono negli Stati Uniti o quello dove vivevano i nativi americani. A me interessa capire come si è trasformato in intrattenimento e propaganda. Come luoghi inospitali, anche grazie al cinema e alla letteratura, sono diventati affascinanti e romantici, sono diventati sinonimo di uno stile di vita. La Polaroid Sx-70, che risale agli anni in cui ci veniva raccontato e venduto il sogno americano, cattura questo contrasto. Dà conto del manufatto, dà poca realtà, è senza tempo, riesce a creare un ponte con il passato. Diventa così il simulacro di un mondo che mi affascina e che mi ha portato negli Stati Uniti”.

Questa è la terza di una serie di interviste a giovani registi che hanno realizzato film e documentari sugli Stati Uniti. L’idea è quella di dare spazio a voci che descrivano in modo originale la società americana e, di conseguenza, parlino molto anche della nostra. Ecco il primo episodio ed ecco il secondo. Chi volesse proporre i suoi lavori può scrivermi a [email protected].

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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