Recensione del Grand Tour (2024) | Quinlan.it – .

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Presentato in concorso al Festival di Cannes 2024, gran Tour di Miguel Gomes non delude le premesse, ci prende per mano e ci porta in giro per l’Asia, in un flusso narrativo dal ritmo sospeso e dalla stratificazione abbagliante, in un fertilissimo cortocircuito temporale, linguistico, estetico e artistico. UN giro di forza anche produttivo, internazionale, che mescola l’ispirazione documentaristica dei paesaggi asiatici e lo straordinario lavoro su scene, costumi e tutto ciò che segue realizzato nel Bel Paese. Cinema fuori dal tempo, cinema puro.

Ho percorso ogni autostrada

Rangoon, Birmania, 1917. Edward, un funzionario pubblico dell’Impero britannico, fugge dalla sua fidanzata Molly il giorno in cui lei arriva per sposarsi. Durante i suoi viaggi, però, il panico lascia il posto alla malinconia. Contemplando il vuoto della sua esistenza, il codardo Edward si chiede cosa ne sia stato di Molly. Determinata a sposarsi e divertita dal trasloco di Edward, Molly segue le sue orme in questo grande tour asiatico… [sinossi – pressbook]
…e così sarà finché un giorno,
vecchio e stanco si ammalerà in uno di quei paesini di montagna,
e troppo debole per essere riportato a valle, presto morirà.
– Il gentiluomo nel salotto, W. Somerset Maugham.

Dal coccodrillo di Tabù al panda di gran Tour il passo non è così breve. In mezzo c’è di tutto: l’ascesa di Miguel Gomes, le pagine di W. Somerset Maugham, un tour asiatico per le riprese e uno europeo e internazionale per soldi, Covid, cinema. C’è il colore ma anche – e soprattutto – il bianco e nero, il super 16mm, il teatro in tante sue forme e declinazioni, l’ispirazione documentaristica e le riprese in scena, il passato e il presente, il gusto raffinatissimo del racconto. C’è, davvero straordinaria, una passione per il cinema del passato, per il Fareper una settima arte che ancora esiste tangibile. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2024, gran Tour è un’opera-mondo, una rinnovata dichiarazione d’intenti, un manifesto artistico che viene da molto lontano, nel tempo e nello spazio, e che promette di non mollare terreno. Perché, in fondo, metabolizzata la computer grafica e del tutto impreparata alla prossima rivoluzione dell’intelligenza artificiale, forse il Brigadoon della settima arte, questa sorta di immortalità intermittente e di fedeltà originaria, è proprio racchiuso in questo cinema così altroeppure a suo modo popolare, divertente, emotivamente coinvolgente ed esteticamente generoso.

Poi, ovviamente, non è comodo lungomare piccola città gran Tour. Per fortuna non si tratta nemmeno di una marcia forzata ginzburgiana su per le montagne. Sul fiume anche il cinema del regista portoghese Miguel Gomes Le mille e una notte – Arabian Nightsci chiede solo di lasciarci trasportare dai mille rivoli della sua narrazione stratificata, dalla sarabanda di invenzioni, intuizioni, deviazioni.
Un dettaglio, uno dei tanti. Un tiro e controcampo. Siamo in un ufficio postale a Saigon. L’inquadratura dei banconi è chiaramente contemporanea, non c’è alcun tentativo di modificarla, truccarla, farla tornare indietro nel tempo. Il controcampo, in uno schiocco di dita, ci ricorda la magia del cinema, quella finzione in cui crediamo ciecamente (come i fondali dei Il mago di Oz), facendoci improvvisamente ritornare esteticamente al 1918, a quel piano narrativo che è (appare) totalmente immerso nel tempo di Edward (Gonçalo Waddington) e Molly (Crista Alfaiate).

È un film d’amore gran Tour. Più amori, più variazioni. Quello codardo di Edward e quello testardo e un po’ pazzo di Molly, ovviamente. Ma non solo, perché le storie si intrecciano come destini e fanno capolino, riverberando, su altri schermi: il foglio di sagome pre-cinema, ma anche la bizzarra danza della seduzione che forse avrebbe potuto fermare il viaggio di Molly, probabilmente non più amata da Edward. ma sicuramente amato dal ricco Timothy Sanders (Cláudio da Silva). E chissà quali amori si è perso l’improvvisato cantante di karaoke, spinto fino alle lacrime dopo la sua apprezzabile versione A modo mio… insomma storie, destini, traiettorie romantiche, ormai antiche, forse oggi impossibili. Un romanticismo che scaturisce da vecchie pagine, da diari di viaggio, da imprese mai compiute, immaginate, scritte, messe in scena. Siamo o non siamo in mezzo ad una foresta? Sì, ma anche no. L’altro grande amore di Gomes è per il cinema. Il suo viaggio, la sua storia, non può che essere vero e falso allo stesso tempo. Birmania, Thailandia, Singapore, Vietnam, Filippine, Giappone, Cina, ma anche gli studi romani, la giungla che diventa finta e insieme reale. E l’ultima destinazione, il Tibet. Noi, un po’ come Molly, siamo chiamati a seguirlo, a seguirlo ciecamente nonostante tutto, infatuati di questo modo di fare cinema che sembra uscito da un teatro Shangri-La. Ma ci saranno i cinema a Shangri-La? Forse sì, del resto nella giungla di Edward e Molly ci sono i cellulari.

Come un nuovo Phileas Fogg, Gomes porta a casa il suo giro del mondo, regalandoci una sorta di mappatura (post)colonialista dell’Asia orientale. Quello che è stato ieri, tra le due guerre mondiali, con la potenza tentacolare di Inghilterra, Francia e anche Portogallo (e non solo), e quello che è oggi, un orizzonte indubbiamente più libero. In questo senso, la staffetta delle voci narrative che cambiano da nazione a nazione, da lingua a lingua, è addirittura commovente. Indubbiamente una scelta accorta, tutta politica, come del resto il cinema di Gomes. E poi i panda, il bagno delle scimmie nelle terme, la monorotaia, il valzer e l’opera, i costumi e le scenografie (che funzionano!), i grandi paesaggi naturali e il traffico cittadino, i colori accesi dei fuochi d’artificio e il buio pesto notte della foresta, amore, vita, morte. Realtà e finzione. Miguel Gomes è Oscar Diggs. Lui è il mago di Oz.

Informazioni
Il profilo del Grand Tour sul sito del Festival di Cannes.
 
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