Il documentario su Federer serve a salutarlo e ad accettare che il tennis continuerà a vivere anche senza di lui – .

I documentari di maggior successo del nostro tempo, non solo sportivi, sembrano ricorrere a una tecnica molto funzionale: indagare le zone d’ombra, cercare l’opacità nel personaggio raccontato e fino ad allora sconosciuto, una sfumatura spigolosa del carattere che ci fa osservare il eroe da un punto di vista inedito, per lo più negativo, indispensabile alla progressione narrativa.

Il documentario che racconta gli ultimi dodici giorni di carriera di Riger Federer avrebbe potuto inserirsi in questo solco, ma visto che parliamo di Federer, quello di Amazon PrimeVideo è un prodotto che sovverte questa logica apparentemente essenziale. In uscita il 20 giugno sulla pedana, “Federer: gli ultimi dodici giorni” si distingue subito per la sua totale linearità celebrativa, che non tradisce mai la natura dell’operazione.

Un talento puro, anche nell’addio

Il lettore però faccia attenzione a non fraintendere, qui non c’è traccia di critica. La raccolta di immagini che ripercorre le ultime due settimane della carriera di uno degli atleti più incisivi di tutti i tempi è lo specchio perfetto di Federer: un racconto limpido, senza apparenti difetti, in cui regna un’armonia assoluta. Non ci sono rivelazioni, sappiamo fin dal primo minuto che tutto inizierà dal momento in cui Roger Federer sarà sul punto di annunciare il suo addio al tennis, smettendo di fare quello che è sempre sembrato riuscire con una facilità disarmante, fino a sminuire il valore della la sua fatica quotidiana, la sua preparazione atletica, la sua stabilità mentale.

“È il più forte di tutti, è impeccabile, gioca a tennis come se avesse bevuto un bicchiere d’acqua”, lo abbiamo sempre sentito dire, quasi come se questo talento raffinato e unico, che coniugava atleticità, estetica ed efficacia attraverso un processo di sintesi irreale, fosse ovvio, gratuito. Naturalmente questo non è il caso, ma il lavoro di Il regista premio Oscar Asif Kapadia e di Joe Sabia non ha lo scopo di sviscerare le peculiarità tecniche di Federer, né di dimostrare quanto sia stato importante il sacrificio o di raccontare come sia diventato un campione. Intende squisitamente fotografare le emozioni di chi è stato costretto a dire basta perché il tempo lo ha deciso, proprio nei giorni in cui lui decide di farlo.

I lati oscuri, dicevamo, ma Federer sembra non averne. Niente da nascondere, anche le sue vulnerabilità, il suo cedimento alle emozioni sono diventati parte integrante un atleta che bramava la perfezione. Kapadia e Sabia mostrano così, attraverso un sapiente utilizzo delle immagini private scattate in quei dodici giorni, il dietro le quinte del viaggio verso ciò che tutti hanno sempre temuto: la fine. Non è un dettaglio irrilevante, perché per molti appassionati di tennis il ritiro di Federer ha sempre avuto i tratti di un abisso, dell’orizzonte oltre il quale non c’era nulla.

Poi è arrivata la scomparsa, come era ovvio, e non è un caso che si utilizzi il lessico del lutto. È successo dopo un percorso di preparazione durato alcuni mesi, una lenta accettazione, ma è rimasta viva la sensazione di una chiusura incompleta, l’assenza di un sigillo che quella sera di lacrime Laver Cup a settembre 2022, pur commovente, non aveva potuto cedere per l’assenza dell’elemento agonistico. Se doveva concludersi con una performance, era giusto sapere cosa c’era dietro quella performance e perché Federer ha scelto di farla finita così.

L’incontro con Nadal, terzo incomodo di Djokovic

Così si è riunito la Laver Cup L’ultima partita di Federer nel documentario diventa il racconto di un ultimo giorno di scuola, al cospetto di tutti i personaggi che hanno accompagnato il nostro eroe, nel bene e nel male, lungo il suo viaggio. Il rivale Rafael Nadal, un incubo con cui Federer ha imparato a convivere diventando suo amico, ma anche il rivale che si è inserito come “terzo incomodo”. Così lo definisce Federer Novak Djokovic quando parla del suo approdo improvviso, dell’ingerenza nel tennis dei grandi mentre lui e lo spagnolo si occupavano di spartirsi il dominio. C’è rispetto, ma non affetto per il serbo, che pur in un clima di cortesia viene sempre percepito come un elemento esterno, di disturbo, anche in questo finale di festa.

Il sipario su Lorenzo Sonego

In questi ultimi dodici giorni non mancano i momenti ironici, in cui emergono alcuni dettagli inaspettati su quegli avvenimenti che fanno del tennis uno sport così adatto alla frammentazione sociale. Un esempio soprattutto quando Federer chiacchiera nello spogliatoio con Nadal e Berrettini di quanto grida quando colpisce la palla. Roger prende in giro Nadal a inizio carriera, ma finisce per ricordare quanto accaduto due anni fa a Wimbledon tra Nadal e Sonego, con quest’ultimo rimproverato dallo spagnolo per l’eccesso di entusiasmo con cui si liberò dopo il tiro . “Sono sicuro al cento per cento che lo abbia fatto apposta.”Lo dice Nadal a Berrettini, che prova a difendere il connazionale dicendo: “Lo conosco da quando eravamo bambini, ha sempre fatto così.”. E Federer che ride, osservandoli.

Sipario a parte, “Federer: gli ultimi dodici giorni” è davvero l’equivalente di una messa in memoria dell’addio di Federer, l’ultimo atto per dire addio al suo tennis e fare pace con la persecuzione dei rulli che intasano il feed di Instagram ricordandoci l’incomparabile bellezza delle sue imprese e l’inconsolabile senso di vuoto che nessuno oggi, forse nemmeno un numero uno del mondo italiano come Sinner, riesce ancora a riempire. Questo documentario riesce, in qualche modo, a spingerci verso l’accettazione che ci sarà un futuro dopo Federer, anche per il tennis.

Resta lo spazio, e per certi versi la fame, per quell’opacità di cui si parlava all’inizio, la convinzione che la complessità di un personaggio come Federer possa essere ancora esplorata, anche se è ancora presto. Quando si confesserà il re di questo sport raccontando i momenti più complessi della sua carriera, dagli esordi irascibili alla detronizzazione da parte di Nadal, quelle lacrime di frustrazione nel 2009 dopo la finale persa agli Australian Open; o ancora lo sconforto dopo le sconfitte con lo spagnolo sulla terra, il terrore di non poter tornare nuovamente in campo prima di quel clamoroso ritorno nel 2017; o ancora, quando Federer accetterà di raccontare il dramma di quell’ultimo (vero) incontro giocato a Wimbledon con Djokovic nel 2019, perso clamorosamente e senza alcun senso nonostante le statistiche lo dimostrassero vincente sotto ogni aspetto, tranne quello del risultato finale? Aspettiamo anche quel documentario, ma intanto godiamoci questo.

Immagine

“Il futuro appartiene a chi è curioso professionalmente”, era la frase di un vecchio film che cerco di ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di poter descrivere la realtà che vediamo attraverso uno schermo, di qualsiasi dimensione esso sia. Renzo Arbore è il mio profeta.

 
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