limitare la Cina di Xi – .

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Stefano Stefanini, ambasciatore di lungo corso (è stato anche consigliere diplomatico di Giorgio Napolitano e oggi senior advisor dell’Ispi) ha scritto di un G7 con «un’agenda forte e leader deboli», aggiungendo di non aver mai visto una sproporzione così evidente tra « le puntate e le carte a disposizione dei giocatori». Nonostante tutto però è stata la sua conclusione, alla fine i risultati possibili sono stati raggiunti.

Il più discusso, e il più pubblicizzato, è stato il via libera al piano di utilizzo dei fondi russi congelati in Europa e nel resto del mondo. Come ha dimostrato la furibonda reazione russa (“un atto criminale”), la decisione ha colto nel segno. Innanzitutto per le sue conseguenze pratiche: la possibilità di fornire aiuti a Kiev, con cavilli (non il sequestro dei beni, ma l’utilizzo dei profitti) che appaiono più difficili da contestare sul piano del diritto internazionale. Ciò che conta, però, è stato anche il significato simbolico: a più di due anni dallo scoppio del conflitto, i principali Paesi occidentali, tra mille dubbi e incertezze, non hanno perso la capacità di muoversi in modo unito e coordinato. Per il momento, quindi, le speranze del Cremlino (che aveva e continua a scommettere molte carte sui disaccordi dei suoi avversari di fatto) sono state deluse.

Al vertice pugliese, però, è stato protagonista un altro Paese, quasi più della Russia. Ospite d’onore è stata la Cina, che ha animato le discussioni dei leader per almeno due pomeriggi. Giovedì, sotto la presidenza congiunta di Giorgia Meloni e Joe Biden, i partecipanti al vertice hanno incontrato i leader di una serie di colossi dell’industria privata (da Blackrock a Microsoft, da Eni a Enel) per parlare dei rivali occidentali della «Via del Seta cinese: il PGII (Partnership for Global Infrastructure and Investment) americano, che da solo vorrebbe mobilitare investimenti per 600 miliardi di dollari nei Paesi in via di sviluppo, il Global Gateway, adottato a livello europeo e il Piano Mattei elaborato dall’Italia. Il comunicato finale della sessione ha sottolineato la volontà di aumentare “il coordinamento tra i progetti, per massimizzare il loro impatto collettivo”. Il paradosso è che la Cina è stata nominata solo per escludere che le tre iniziative fossero rivolte contro di lei. Una menzogna pietosa visto che in gioco c’è l’influenza sui Paesi del Sud del mondo (dall’Africa alla regione dell’Indo-Pacifico): nel 2013 Pechino, con la sua Belt and Road Initiative, si mosse per prima, ora l’Occidente vuole rifarsi per il tempo perduto (e il terreno).

Il nome della Cina, però, è risuonato forte e chiaro nella seduta di ieri pomeriggio, dove sono state esaminate le altre questioni che dividono i Paesi più industrializzati dal colosso asiatico: gli aiuti sottobanco alla Russia ma anche la “sovracapacità produttiva” cinese. , risultato di una politica di sussidi coordinata a livello statale. “Non vogliamo chiudere il nostro mercato”, ha affermato la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, “e accogliamo con favore la concorrenza, purché sia ​​basata su equità e parità di condizioni”. Anche il formato scelto per il vertice, con la presenza di una quindicina di paesi BRICS e dell’area che un tempo si sarebbe chiamata Terzo Mondo, rientrava nel contesto del confronto tra le autocrazie e l’Occidente. Il punto di partenza è stato il desiderio di mostrare interesse e disponibilità a collaborare. Per ricevere sostegno anche e soprattutto sulla guerra in Ucraina.

Il compito è diventato più difficile con la ripresa del conflitto a Gaza (more

argomento che è stato oggetto dei colloqui al vertice). Gran parte del Sud del mondo è decisamente filo-palestinese. E sempre più spesso l’accusa che sentono i sostenitori di Kiev è quella di usare doppi standard.

 
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