“T”, il romanzo di formazione di Chetna Maroo – .

Gopi ha undici anniE orfano recentemente e ogni pomeriggio gioca schiacciare per due o quattro ore con le due sorelle maggiori Mona e Kush. Si allenano a Corsia occidentaleun centro sportivo appena fuori Londra.

Quando T inizia (Adelphi, 2024, traduzione di Gioia Guerzoni; finalista al Booker Prize 2023), Chetna Maroo ci offre un’atmosfera da Romanzo di formazione trama puntuale e accessibile: una famiglia di a padre vedovo E tre figlie orfane ancora in lutto cerca di guarire; l’adulto di casa prova a farlo per tutti, ma capiamo subito che ci riesce poco o niente; c’è qualcosa, al di là del lutto, che lo trattiene sia nelle sue parole che nei suoi gesti. Crede che farli allenare ogni pomeriggio dia a tutti e tre uno scopo e aiutarli a superare il perdita della madre.

Infatti Mona, Kush e Gopi hanno avviato l’attività e lo hanno fatto da soli: Ricominciare senza una madre e con un padre di cui le ragazze finalmente vedono i lati più intimi e umani, quelli difficili da gestire e in un certo senso da comprendere. Quelli, in definitiva, che li portano necessariamente a crescere, con una spinta sull’acceleratore.

T ha capitoli brevi. Si scioglie descrizioni fluidepassaggi intimi e poi cambiare ritmo quando parla del campo che prende vita, diventa corpo e movimento, le partite di Gopi e quelle dei giocatori del passato e quindi la storia delle emozioni passa attraverso questa fisicità.

IL corpo delle tre ragazze comunica con il movimento, mentre Pa sembra concentrato su se stesso, sul suo lutto. Cerca di essere presente ma si ritrova quasi sempre nel silenzio e anche quando zia Ranjan e zio Pavan di Edimburgo vogliono dargli una mano, queste presenze assomigliano più ad una palese interferenza, ma lui sembra lasciare le cose al corso degli eventi. L’idea dei suoi zii è che lui solo con tre ragazze non sarebbe in grado di prendersi cura di loro. Li avrebbe lasciati crescere male, senza una vera guidasenza il controllo tempestivo che è necessario.

Mona, Kush e Gopi vanno a scuolaSono introverso, sono scarsamente integrati nel contesto scolastico. Nella prima parte della storia si muovono tutti insieme come un universo separato dagli altri membri della famiglia. Ognuno cerca di ritrovare il contatto con il proprio madre e in parallelo con il padre. La loro idea di famiglia e il lutto è comunitario: le unità che compongono il loro mondo non sono unità isolate, ma sono pezzi del puzzle che possiedono bisogno di ricomporsi.

Tuttavia, non sono in grado di comprendere appieno il padre parla Gurajati, la lingua preferita dalla mamma, quel dispositivo di riconoscimento relazionale che sanno comprendere nei suoni ma non nelle parole. Parlano inglese con il padre, ma non serve, lui tace. Non sono riusciti a fare lunghe conversazioni con la mamma e allora hanno sostituito la parola con il gesto, con la fisicità e ora non sanno ritrovarsi nel rapporto fisico perché il linguaggio fisico è diventato squash, che non ha nulla a che fare con Gurajati. Hanno perso il dispositivo di comunicazione, il corpo della madre, e il dispositivo di comunicazione con il padre continua a funzionare male.

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Nel romanzo di Chetna Maroo, la lingua madre è solo nominata, come un abito perso nel ricordo di un’occasione importante. E nel ricordo dei protagonisti diventa sensazione, odore, suono, la memoria fisica che prima era al centro e rivive. Quando le tre ragazze cercano il contatto con la madre, la lingua viene in loro aiuto – soprattutto a una di loro, Kush, che spesso sussurra parole in Gurajati che gli altri non capiscono – perché quando lei era viva quella stessa lingua era un ostacolo rapporto: “Con papà e zii parlavamo sempre in inglese, ma con mamma no perché lei faceva fatica, anche se capiva. E non conoscevamo così bene i Gurajati. Ecco perché abbiamo ascoltato la mamma con tanta attenzione e non le abbiamo staccato gli occhi di dosso. Forse è per questo che le eravamo vicini, per cui cercavamo continuamente il contatto fisico”.

Nel sofferenza del padre, le ragazze non possono entrare. Lo osservano, però. Lo seguono. Notano i cambiamenti. Ma da lontano, senza avvicinarsi a quel corpo. Quando Mona trova un lavoro, ad esempio, lo racconta a suo padre, cercando una reazione, ma lui non lo capisce. Le sorelle in definitiva sono un gruppo, mentre lui è completamente solo nell’impresa. O almeno così sembra.

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Come nel caso del Gujarati, le tre sorelle hanno una relazione passiva – non sono in grado di agire con la lingua, per dirla in pratica – con lo squash che praticano tutti i giorni, invece, il rapporto è attivo, è totalizzante. Lo squash occupa i loro pomeriggi in modo quasi ossessivo: è il modo pratico per tenere occupata la mente e superare il lutto.

Ma solo per uno di loro diventa anche qualcos’altro. Gopi si ritrova la migliore in campogovernare le linee della palla, i movimenti, il racket come un madrelinguacome se avesse trovato dentro di sé, nascosto da qualche parte, un ponte per uscirne.

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I protagonisti dei romanzi di formazione

L’inizio del romanzo è già una parziale rivelazione: Gopi si allena in campo e parla del rumore della palla: “Non so se sei mai stato al centro di un campo da squash, sulla T, per ascoltare cosa succede nel campo vicino. Penso al suono della palla colpita da un tiro deciso e netto. Un suono basso e fulmineo, come uno sparo, seguito da un’eco ravvicinata.

Il campo da squash non è un luogo neutrale, ma non è un luogo madre. Anzi: è il padre che conosce i giocatori del passato, guarda le partite con le figlie, con Gopi in particolare, costruisce con loro un vocabolario comune basato sui movimenti di questo sport. Lo spazio limitato, le possibilità finite, le regole, la metodicità della formazione fanno sì che Mona, Kush e in particolare Gopi abbiano poco tempo per pensare al lutto (ma non alla madre) e abbiano invece molte occasioni per spenderlo sul campo. nella racchetta, sulla palla, alla T. In uno spazio chiuso e limitato dove lasciare fluire l’emozione ingrata.

Mona, però, non è molto interessata al gioco e Kush ha un fisico non adatto a quel tipo di allenamento e movimenti, e spesso si infortuna: Gopi è l’unica che trova il vero interesse, è brava, vince. Gopi è veloce, sorprendentemente potente. Ha una risposta al dolore che nessuno si aspetta e trova un ponte con suo padre che le altre ragazze non potranno mai avere.

Quando Gopi comincia ad esaltarsi nello sport, lasciando che le sorelle si curino in altri modi, nasce un nuovo mondo di cui pochi eletti conoscono le forme. Due degli attori principali sono Gopi e suo padre; in secondo luogo lo zio Pavan e poi Ged, un ragazzo che ogni tanto si allena con Gopi e frequenta Western Lane.

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La lingua della zucca tace, fatto di gesti specifici, suoni precisi che presagiscono l’esito del tiro. Non c’è bisogno di parlare per giocare, né di migliorare nel gioco e in questo il padre è perfetto. Gopi impara a muoversi e comprendere questo linguaggio del silenzio e lo adotta. È lei che ce lo descrive nel libro, ci racconta dei giocatori di cui ha visto più volte i video, soprattutto Jahangir Khan, del loro modo di pensare e di agire in campo.

Impara lo sport e nel frattempo costruisce la sua educazione tra i vivi, che somiglia a quello del padre, ma non è identico, che parla anche allo zio Pavan e alle sue sorelle che, fuori dallo squash, diventano spettatrici. Ne rimane completamente fuori solo la zia Rajan, colei che è interessata solo all’educazione formale delle nipoti, al loro inserimento nella società adulta che non deve essere limitato dal fatto di aver perso la madre, quindi una guida, un prerequisito per essere cresciuto rispettabile.

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Gopi trova uno spunto con lo squash, tra allenamenti prima e partite poi, scopre Ged, un ragazzo che le piace davvero senza sapere perché, vive la sua adolescenza tra colpi ben mirati e ritmo prudente. Capisce da dove nasce il profondo disagio di suo padre e che staccarsi, allontanarsi e poi tornare è l’unico modo per guarire.

La madre e la lingua madre sfumano progressivamente nel racconto e nella guarigione del lutto ciò che resta è qualcosa che ciascuno dei personaggi può rivendicare per se stesso. Da una piccola comunità persa nello stesso dolore, le persone emergono con un ricordo in più e una possibilità in più.

“Quando sei in campo, durante una partita, in un certo senso sei solo. E giustamente. Devi trovare la via d’uscita. Devi scegliere le inquadrature giuste e cercare lo spazio che ti serve. Devi tenere a freno la tua T. Nessuno può aiutarti. Nessuno può concentrarsi per te o avere paura di perdere per te. Ma a volte accade il contrario. In campo ti senti tutt’altro che solo”.

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