Perché Viterbo non corre ma cammina? – .

Perché Viterbo non corre ma cammina? – .
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Di Francesco Mattoli

VITERBO – Con gli ultimi cinque o sei sindaci ci siamo sentiti (e ci parliamo) a prima vista, siamo amici; Con qualcuno ho condiviso gli anni della discoteca, con qualcun altro le discussioni civili del ’68, con qualcun altro condividiamo le passioni sportive, con due o tre ho collaborato anche a livello istituzionale.

Non sono meriti particolari; si può stimare che almeno un viterbese su cinque sia buon amico di uno o più sindaci che hanno governato Viterbo negli ultimi trent’anni. Succede nelle piccole città; e ancora di più nei piccoli centri. Oggi il mondo sarà forse piccolo grazie ai social, ma fino a ieri il mondo era abbastanza piccolo a Viterbo da aver condiviso un’aula di scuola, una palestra o un campo sportivo, una parrocchia, amici, magari ripetute chiacchierate in piazza Crispi o da Schenardi, e così via.

Naturalmente la vita non crea solo amicizie; ma anche disaccordi, conflitti, amarezze, fino all’odio. E anche queste, in un piccolo centro urbano, possono essere personalizzate ad libitum; discussioni condominiali, conflitti di lavoro, invidie e vendette, visioni ideologiche opposte che si trasformano in disprezzo reciproco e talvolta anche conflitto fisico, per non parlare della ragazza o del ragazzo conteso; e così via.

È quindi probabile che un altro viterbese su cinque abbia o abbia sviluppato un atteggiamento personale conflittuale con questo o quel sindaco, o con più di uno di essi. Poi, sapendo che Dio mi proteggerà dai miei nemici, che mi prenderò cura dei miei amici di partito, dobbiamo anche ricordare che la comune militanza politica genera coesione, solidarietà e amicizia, ma allo stesso tempo favorisce
cattiveria talvolta addirittura peggiore dell’odio politico-ideologico che si sviluppa nei confronti dell’avversario politico.

È vero: c’è anche un rispetto reciproco che va oltre le barriere, ed è più diffuso di quanto si possa pensare: “abbiamo opinioni politiche opposte, ma lui è una persona onesta”; “La vediamo diversamente, ma è una persona molto competente”; “Politica a parte siamo amici e a lei affiderei mio figlio”. Tutte buone maniere e buone intenzioni che, ovviamente, si fermano davanti al seggio elettorale, o dentro un’aula
consigliare.

In breve, la politica in una piccola città diventa facilmente un enigma, o un dramma. Ora lasciami essere un sociologo. Esiste un meccanismo comune nella nostra vita sociale che ci fa approvare tutto ciò che si adatta alla nostra identità e personalità, e ci fa disapprovare tutto ciò che ci costringerebbe a cambiare la nostra opinione.

È stato chiamato in vari modi: pre-giudizio, percezione selettiva, riduzione della dissonanza cognitiva, bisogno di appartenenza, bias di conferma. Essa innesca la formazione di idee e ideologie, valori, conoscenze, relazioni interpersonali, conflitti sociali, discussioni e competizioni, soprattutto in ambito politico. Tanto che se amico

Traggo le conseguenze di quanto detto finora. I giudizi che il cittadino fa sulla politica di governo della città sono sempre influenzati da esperienze personali e ritualità sociali a cui è difficile rinunciare. Il nemico sbaglia sempre, l’amico sbaglia sempre e se sbaglia ha delle buone ragioni. Questo a livello politico; a livello personale se va bene tanti complimenti, se va male un sospiro, poi guarda e vai altrove.

Potresti chiederti: se è così, perché si alternano governi e amministrazioni di colore diverso? Se cambiano le forze in campo, non significa che molti elettori cambieranno opinione? Intanto ormai più di un terzo dei cittadini non va a votare, non ne sente il bisogno; per poi lamentarsi perché questo o quel sindaco, questo o quell’assessore non fa il proprio dovere. È la peggiore sindrome dell’indifferenza, quella del “Piove,
governi ladri”, ed è anche uno schiaffo a chi diede la vita ottant’anni fa per garantire a tutti noi la libertà di voto.

Prendo però in prestito una recente battuta di Franco Ferrarotti a questo proposito: «Non è più come una volta, quando gli elettori avevano i governanti che meritavano; è che oggi i governanti hanno gli elettori che meritano”.

Insomma, alla fine la politica, soprattutto quella locale, finisce per essere uno strano groviglio in cui il copione della pièce è lo stesso, ma ruotano i ruoli degli attori, cambiano i registi, per cui diventa difficile capire se una critica , una promessa, un’affermazione vale per quello che dice o meglio per quello che implica, a seconda di chi la esprime e quando. Con la conseguenza che si perde ogni credibilità, crocifiggendo innanzitutto l’elettore e comunque il cittadino, ma anche il giornalista (se fa il suo mestiere, piuttosto che l’attore in scena o l’agitatore), il critico (che se fa il non è di parte e vorrebbe praticare l’equilibrio), il magistrato (se chiamato a giudicare), e – sia chiaro – anche il sociologo più esperto (se vuole rispettare le regole della sua professione).

Qualcuno si mette sul petto la medaglia guadagnata da altri prima di lui; qualcun altro osa accusare il nuovo amministratore di errori e omissioni che risalgono a quando era alla guida della città. Qualcuno invoca la “Verità dei fatti”, ma i fatti sono solo un’interpretazione parziale della realtà (lo sostiene anche la fisica quantistica). Ci si potrebbe ridere sopra, ma la cosa più sorprendente è che in questo vortice di contraddizioni il governo cittadino avanza ancora negli anni, come se in fondo chi si impegna fosse talmente legato alle routine amministrative ed economico-finanziarie che ogni cambiamento di la direzione è molto meno innovativa di quanto si vorrebbe e ogni tentativo conservatore è reso vano dall’inerzia del cambiamento, che comunque viaggia da solo.

Naturalmente Viterbo non corre; cammina, ma non corre. Anzi, temo che il divario con tante altre città per dimensione urbana e storico-culturale si allargherà, come se noi andassimo al mare con la 500 mentre gli altri ci corrono con la Bmw o la Ferrari. Certo, anche noi stiamo andando verso la meta, ma quando arriveremo dovremo accontentarci di un ombrellone in quinta fila perché chi correva sapeva e poteva scegliere prima di noi.

Viterbo non corre perché ciò che altrove è risorsa di conflitto politico, qui diventa operetta e teatro dei burattini; perché uno vale uno, e questo non è assolutamente vero, altrimenti tanto vale chiudere le università; perché tendiamo a nascondere la polvere sotto il tappeto anziché eliminarla; perché guardi più il tuo dito che la luna; perché siamo provinciali, abituati da secoli a cavarsela all’ombra avara e avida di Roma; perché il delirio di onnipotenza di alcuni vince sull’equilibrio e sul buon senso di molti; perché di conseguenza competenza e professionalità sono un’opzione inutile; perché c’è ancora chi pensa che la cultura consista nel leggere un paio di libri di successo; perché chi spara per primo e chi urla più forte vince comunque; perché il nostro orizzonte finisce troppo presto.

 
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