Italia, impotenza coloniale | il poster – .

Italia, impotenza coloniale | il poster – .
Italia, impotenza coloniale | il poster – .

Accordi, commerci, viaggi, incontri, ma lo Stato italiano proprio non vuole riconoscere un passato comune, spesso violento e di sfruttamento. Il nostro rapporto con le ex colonie continua ad essere problematico, irrisolto, ma soprattutto volutamente omesso. Eppure le occasioni e le date non mancherebbero, come oggi, 5 maggio, giorno che commemora l’inizio dell’occupazione italiana dell’Etiopia (1936) e il ritorno dell’imperatore Haile Selassie, lo stesso giorno solo cinque anni dopo. In Etiopia è una festa nazionale, il “Giorno della Vittoria dei Patrioti Etiopi”, noto anche come Meyazia 27.

Dal basso qualcosa si sta lentamente muovendo, con i festeggiamenti intorno a Yekatit 12 (massacro di Addis Abeba), ma a livello governativo quando si parla di colonialismo lo si fa in modo sbilenco e in genere non lo si fa. Un’altra occasione mancata per farlo è stata il ritorno in Etiopia del primo aereo costruito nel Paese a febbraio. Secondo una nota del Ministero della Difesa (italiano), «L’aereo effettuò il suo primo volo nel dicembre 1935 e compì circa 30 ore di volo prima di essere abbandonato ad Addis Abeba nel maggio 1936, prima dell’arrivo degli italiani. , che lo requisì per poi esporlo, nel 1941, nel Museo dell’Accademia Aeronautica di Caserta”.

COSA HANNO FATTO GLI ITALIANI ad Addis Abeba nel 1936? Perché parliamo di requisizione e non, più correttamente, di espropriazione, furto, depredazione, spoliazione? Non tralasciamo nemmeno il dettaglio dell’abbandono, che si cela dietro una delle mistificazioni (neo)coloniali più dure a morire: gli africani, incapaci di utilizzare le proprie risorse (naturali e non), sanno solo abbandonarle a se stessi. . La nota ministeriale parla di “rapporto storico tra Etiopia e Italia”, insistendo su una retorica priva di ogni riferimento ai rapporti di dominio, di sfruttamento, ai crimini coloniali che è pressoché immutata rispetto a quella affermatasi nel dopoguerra. Perché non è vero che in Italia di colonialismo non si è parlato, come purtroppo sostiene una leggenda che dura da molto tempo: se ne parla da sempre, il problema è come, chi, tralasciando cosa, concentrandosi su quali aspetti (“Italiani brava gente »). In questo caso, il ritorno dell’aereo si inserisce in un contesto significativo che è quello delle restituzioni successive alla fine degli imperi, questione che l’Italia sta affrontando recentemente e in modo molto complesso (vedi Obelisco di Axum).

NEMMENO GLI ACCORDI INFUSTI di costruire due centri di detenzione per migranti in territorio albanese, gestiti dall’Italia e nei quali verrà applicata la legislazione italiana e comunitaria, hanno suscitato echi coloniali. Un ritorno in grande stile, in un Paese che l’Italia governò solo per pochi anni durante la guerra mondiale – lasciando però un segno indelebile, anche architettonico – ma la cui influenza durò decenni. Forse sarebbe bastato anche meno di un mea culpa, ma anche in questo caso non si parla di colonialismo, eppure la questione del rimpatrio dei coloni italiani dall’Albania è stata definitivamente risolta con la concessione delle pensioni solo ai pochi ancora in vita all’inizio degli anni 2000, praticamente l’altro ieri. L’Italia può avere la sua piccola Guantanamo al di là del canale d’Otranto senza risvegliare nessun albanese morto, o italiano rimasto bloccato per decenni in un paese straniero a causa di un’impresa coloniale.

“Tsehay” durante uno sbarco nel 1935

In occasione del ritorno dell’aereo in Etiopia, Crosetto ha insistito sull’importanza del torbido Piano Mattei per l’Africa. Non è un caso che l’attenzione sia puntata sulla figura dell’ex presidente della compagnia petrolifera statale e, mentre restituisce al governo etiope lo “Tsehay”, il primo aereo costruito nel Paese e intitolato alla figlia di Hailé Selassie, si trascura il colonialismo . Eppure i collegamenti non mancherebbero: non si tratta solo di territori e popolazioni coinvolte, che in parte corrispondono a quelle colonizzate dall’Italia. Riguarda anche, se non soprattutto, l’atteggiamento con cui l’Italia si rapporta a quelle popolazioni e come si “vende”. Oggi, come ieri, i governi e le istituzioni italiane utilizzano una retorica che sfugge alla storia coloniale del Paese, e che presenta gli italiani come buoni alleati ad armi pari, non come membri di una ricca élite economico-politica occidentale.

IERI, IN ITALIA che aveva ormai perso le sue colonie, e mantenne fino al 1960 un’amministrazione fiduciaria in Somalia per conto dell’ONU, si instaurò una retorica di paese quasi terzo, anche se incluso nell’Alleanza Atlantica e saldamente legato ai paesi che continuavano a commetterli crimini coloniali (Francia, Portogallo), capaci quindi di parlare come partner ai Paesi del Sud del mondo. Un posizionamento geopolitico decisamente complesso, in cui l’Eni di Enrico Mattei potrebbe vendere ai paesi nordafricani l’immagine di un’Italia pacifica e cooperante, estranea o comunque emancipata dal processo di sfruttamento attuato dal colonialismo da parte di altri paesi europei e quindi partner affidabile e leali, rispetto a Gran Bretagna e Francia, ai paesi che avevano costruito la loro nuova indipendenza attraverso lotte anticoloniali.

Quei paesi dovevano aprirsi alla tecnologia italiana e sceglierla come partner. Una ricetta retorica che ha avuto e continua ad avere grande successo nella penisola, convinti come sono gli italiani che il loro colonialismo fosse speciale, migliore di altri e, in definitiva, solo un movimento migratorio di disoccupati verso le colonie. Se non fosse che ieri in Italia si muovevano effettivamente movimenti attivi di solidarietà anticoloniale, leader del terzo mondo (Frantz Fanon, Amílcar Cabral) vi trovarono rifugio e vi riconobbero un ruolo di familiarità con ampi settori della società italiana, Mattei sostenne apertamente anche le lotte indipendentiste e proclamò Discorsi incendiari che gli costarono avvertimenti – e probabilmente la vita.

OGGI, IN UN’ITALIA MOLTO DIVERSA da quello di Mattei ritroviamo la stessa retorica che accompagna e avvolge gli accordi commerciali che il governo del Paese propone ai paesi africani e all’Albania, ma senza un centesimo di quel contesto.

Un Paese senza “scheletri coloniali nell’armadio” (come scrisse qualche anno fa il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano), per il quale le riparazioni coloniali nei confronti della Libia, firmate dal governo Berlusconi nel 2008, la restituzione della stele di Axum all’Etiopia nel 2005 , e nel 2024 la restituzione ai legittimi proprietari del primo velivolo etiope non sono mai stati momenti che hanno coinvolto aziende e istituzioni in un ripensamento del passato coloniale del Paese e di come quella storia sia diventata centrale nella costruzione dell’identità nazionale italiana dal 1946 a oggi. Un’Italia che non ha mai avuto, se non nel 1997 con il discorso di Oscar Luigi Scalfaro ad Addis Abeba, la forza di aprire quell’armadio e cominciare a frugarci dentro per pensare a come organizzare il cambio di stagione, cosa tenere e cosa buttare. Quell’armadio continua a restare chiuso e l’abito coloniale con cui gira il Paese è ormai stracciato in più punti; è giunto il momento che le istituzioni italiane lo mettano da parte, dismettendo per sempre l’elmo coloniale. E di farlo sempre, magari partendo da queste date, come il 5 maggio, che sono già cariche di significato.

 
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