Il giorno della bomba a Varese, che uccise il fioraio Brusa. “Non eravamo nessuno” – .

Il giorno della bomba a Varese, che uccise il fioraio Brusa. “Non eravamo nessuno” – .
Il giorno della bomba a Varese, che uccise il fioraio Brusa. “Non eravamo nessuno” – .

Era il 28 marzo 1974 quando, alle 7.40 del mattino, arrivò anche Varese ne è rimasto scioccatoesplosione di una bombain piazzale Maspero, dietro la stazione Nord, lo spazio che oggi si chiama piazzale Kennedy.

Il fiorista Vittorio Brusa morì dopo essere stato fatto a pezzimentre la moglie Augusta Comi è rimasta gravemente ferita.
Una strage rimasta oscura, senza colpevoli, senza giustizia. Nel mezzo di una stagione di bombe a mano fasciste, anche allora si seguì una pista (ma senza esito).

In alcuni libri, in alcuni articoli di giornale, la bomba di Varese è ricordata in poche righe: “morto un fioraio”.
Ma anche un fioraio ha un nome, una moglie, un figlio.
Aurelio Brusa fa lo stesso lavoro del padre, il fiorista. Il giorno del massacro aveva quindici anni. «Ho accompagnato mio padre al lavoro. Quella mattina mi lasciò a casa perché avevo mal di schiena. Mi chiamano al telefono dicendo che era esplosa una batteria del camion. Invece è stato qualcosa di completamente diverso, un disastro”.

L’esplosione al mattino

La postazione di mercato di Vittorio Brusa era vicina ai Vespasiani e lì che posa una mano sconosciuta la bomba, nascosta nella batteria di un veicolo pesante, nella notte tra il 27 e il 28 marzo. Quando i Brusa parcheggiano il loro furgone Fiat 238, Augusta è la prima a provare a spostare quel fastidioso oggetto. Non ci riesce, chiama il marito: quando Vittorio solleva la batteria uno strappo fa esplodere la bomba, facendolo a pezzi e ferendo anche la moglie.

Volano schegge ovunque, per fortuna è molto presto e sono ancora relativamente poche. «Sulla parete del mio camion c’era una foto alta diversi centimetri. Se mi avessero raggiunto sarei morto” ha raccontato ai giornali un commerciante di Marchirolo che si trovava nelle vicinanze.

In caserma e in ospedale

“Essendo mercatari e i contadini ci trattavano un po’ da fessi” sostiene oggi Aurelio Brusa. «Mi hanno subito portato alla polizia, perché volevano sapere, mi hanno trattenuto fino alle 11 del mattino. Solo più tardi, lì, dagli amici di mio padre, apprendo che i miei genitori sono feriti, mio ​​padre più gravemente”.

«Al pronto soccorso ho visto mia madre con il piede staccato. Il professor Montoli, amico di mio padre, glielo ha poi rimontato. Mia madre continuava a ripetere: vai a trovare papà, vai a vedere papà”.

1974, un anno di bombe

Nel tardo pomeriggio il Corriere d’Informazione di Milano – edizione del pomeriggio – riporta già la notizia da Varese. Il giorno dopo sul Corriere della Sera si parla della pista seguita dagli inquirenti: “atto terroristico o vendetta personale”.

Esclusa la seconda ipotesi resta quello dell’atto terroristico. Dopotutto L’Italia è nel pieno dell’offensiva delle stragi neofasciste, inaugurato nel 1969 da Piazza Fontana. Nel 1972 una bomba uccise tre poliziotti. Il 28 maggio, due mesi esatti dopo la bomba di Varese, ci fu la strage di piazza della Loggia a Brescia, otto morti e centodue feriti. D’estate la strage dell’Italicus.

Si tratta delle stragi più note, di cui è stata ricostruita la paternità. Ma nel mezzo ci sono anche altre bombe, oggi quasi dimenticato: il 30 aprile 1974 a Savona esplose la prima delle bombe, una serie di attentati (anche lì morì, quasi per miracolo, una sola persona). Il 2 settembre viene ritrovata una bomba nella centrale dell’Enel Vizzola Ticinodue giorni dopo al Coin di Varese viene trovata una bomba a mano, con la scritta “Questo è l’ultimo avvertimento, è ora di finirla, W the Dux”.

Le indagini a Varese

La Polizia ha inviato investigatori specializzati a Varese: è arrivato da Milano l’ingegnere Teonesto Cerril’esperto che ha subito capito in piazza Fontana quale esplosivo è stato utilizzato, con lui il dottor Gastone Gianni e il maresciallo artificieri Alberto De Simone.

L’inchiesta sull’attentato di Varese si orientò verso i neofascisti, ma non portò da nessuna parte. Nell’estate successiva, in una cabina telefonica di viale Aguggiari – con una telefonata alla Prealpina – venne ritrovata una lettera di denuncia: era firmata da Ordine Nuovo, ma si rivelò poco credibile, anche perché arrivò dopo mesi.

A Casciago c’è stata anche una “cella nera” indagata, quindi non solo dalla Procura ma anche da a libro istantaneo di Franco Giannantoni (“Varese dal manganello alle bombe”).

“Lo Stato mi ha dato 190mila lire e mi ha chiamato a prestare servizio militare”

Nessun responsabile è stato però identificato.
«Non eravamo nessuno, il caso era chiuso, lo sapemmo solo quando la notizia arrivò alla radio» ricorda oggi Aurelio Brusa, nelle serre della sua floricoltura sulla collina appena sotto le poche case di Casale Litta.

Nelle sue parole, nel suo tono, Brusa tradisce ancora una dose di rabbia, per quello che ha vissuto dopo aver perso il padre all’età di 15 anni.

«Gli amici di papà mi hanno invitato a lavorare in Svizzera, belle proposte. Ma si sono anche offerti di aiutarmi a portare avanti il ​​lavoro di papà. Ho scelto di portare avanti il ​​lavoro di papà, abbiamo continuato a creare mercati. Appena ho potuto ho preso la patente, il giorno in cui ho compiuto diciotto anni mi hanno fatto dare subito l’esame”.

Lo Stato ha riconosciuto tuo padre e la tua famiglia come vittime del terrorismo?
«Mai ricevuto nulla dallo Stato. E credetemi: non mi interessava niente. Dopo alcuni anni mi hanno mandato 190mila lire: gliele ho rimandate indietro. A diciotto anni fui chiamato alle armi, anche se ero figlio unico con mia madre al seguito. Per conferma mi dissero di far venire mia madre, cosa che faceva ancora dentro e fuori dagli ospedali. Un sacerdote si offrì di aiutarmi, ma mi chiese di fare un’offerta per un istituto ecclesiastico a Varese. Lo avrei fatto, ma non ne avevo. Sono andato avanti con i rinvii. Grazie alla moglie dell’Onorevole Zamberletti alla fine fui chiamato nei vigili del fuoco. A vent’anni ho ottenuto il congedo”.

Il dolore e la rabbia

Era difficile convivere con quel dolore e quei fantasmi. «Mia madre rimase zoppami ha aiutato un po’ anche al mercato, era alla cassa. È morta l’anno scorso, ancora arrabbiata per quello che era successo».

Aurelio Brusa lo dice ancora con dolore, lo senti nella sua voce. Ma la sua storia va alla fine al trasferimento a Casale Litta, alla floricoltura affermata, a un presente che è già futuro.
«I miei figli fanno il mio stesso lavoro, ho due nuore che lavorano con noi. Credetemi, sono felice con i miei nipoti, ho perso la rabbia verso il sistema che avevo da anni”.

 
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