Taranto-Latina, playoff: provare voglia – .

Taranto-Latina, playoff: provare voglia – .
Taranto-Latina, playoff: provare voglia – .

Sulle note di Enola Gay si leva un nuovo coro:

quasi trent’anni fa salutavo la Serie B
Ero retrocesso in C ed ero pieno di debiti
non finisce qui il Matarrese ci manda in D
Adesso che sono qui voglio sognare la Serie B
Se un giorno invecchierò lo dirò ai miei figli
che bella vita che è, voglio viverla con te!

Un coro che si candida già a diventare una canzone-manifesto non solo del momento che sta attraversando il calcio rossoblù del Taranto, ma anche che riassume gli ultimi trent’anni, dove amare delusioni si sono alternate a pochissime soddisfazioni e che conclude con un inno al desiderio: “che bella è la vita, voglio viverla con te!”. Siamo all’inizio del secondo tempo e queste parole si librano orgogliose nell’aria, uscendo con desiderio da corpi sofferenti. Il Latina continua a spingere e in campo si dà battaglia pallone dopo pallone, metro dopo metro. Mentre in tribuna si è trattato, purtroppo, di una partita di sola andata vista l’assenza degli ospiti che, giustamente, hanno rinunciato al viaggio per i soli 100 biglietti messi a loro disposizione, a riprova di quanto da inizio campionato a tutti gli effetti una delle più grandi ingiustizie sportive avvenute nel Iacovone negli ultimi anni. Il settore ospiti è infatti inagibile a causa dell’incendio che lo ha coinvolto durante la gara d’esordio del campionato, provocato dai giocatori del Foggia ma possibile solo grazie al criminale posizionamento di un’ingente quantità di materiale infiammabile sotto le tribune. Una leggerezza che potrebbe trasformarsi in una di quelle tragedie che lasciano il segno e riempiono per settimane le prime pagine dei giornali e che attende ancora, come noi, l’individuazione anche di un solo colpevole della sua inadeguatezza istituzionale e organizzativa. In campo intanto il Taranto soffre ma resiste, lotta e soffre, sugli spalti oltre a cantare soprattutto si soffre, si soffre tantissimo, chiedendosi allo stesso tempo se si potrà vivere questa vita. Ma per fortuna non è la serata in cui torna in auge un altro ritornello che, nella sua brevità, racconta invece il modo in cui i tifosi tarantini interpretano i loro ultimi trent’anni: “meritiamo di più!”.

Core Schkattate

Sembra una percezione comune: leggendo i commenti che si riversano sui social da martedì sera, sembra che sia un’idea comune praticamente in tutta la penisola, i tifosi del Tarantino meriterebbero di più. Più, forse, anche del suo glorioso passato, non sufficientemente all’altezza da dare alla città a due un’unica, misera, presenza nella massima serie, facendone così un simbolo: la città più grande d’Italia (e forse d’Europa) ) non è mai stata rappresentata nella massima categoria calcistica nazionale. Lo abbiamo sempre saputo nel nostro cuore, spesso ne abbiamo cantato, ma ultimamente forse lo avevamo quasi dimenticato. Abbiamo passato gli ultimi anni – più di un decennio in realtà – a rimuginare, a pensare a cosa avrebbe potuto essere e cosa non è stato, a cosa ci siamo persi. Così che, mentre le delusioni si accumulavano e le opportunità si perdevano, gli anni passavano, la vita cambiava, alcuni emigravano, altri venivano avvertiti, altri entrambi; poi ci fu chi si arrese, allontanandosi come sano esercizio di autoconservazione. “Core schkattate” sono i nostri, in italiano potremmo tradurre così cuori schiacciati, fatto a pezzi, esploso, ma è uno di quei casi in cui tradurre significa tradire, non rendere giustizia al concetto. Se oggi linguisti come Vera Gheno stanno sdoganando il “mi piace” perché ne rafforzerebbe il concetto, forse è giunto il momento di fare lo stesso con il dialetto, perché “schkattate” conserva nella sua stessa pronuncia la prima esplosione e la morte della parola con lo schwa finale. Schkattate, solo il nostro cuore.

“La situazione peggiora. Va meglio. Non posso dirlo, non lo so»

E poi il corpo riprende il sopravvento. Dormi male la notte prima, non mangi il pomeriggio, hai i nervi a fior di pelle fin dal mattino. Ma la partita è solo in serata, alle 20.30, e arrivando lì sai già che sarà una tragedia, sperando nel miracolo. Non ricordi l’ultima volta che hai sentito una tensione simile, oppure sì, c’è stato un po’ il derby con il Bari, privo di significato sportivo ma pieno di altro; ma no, non a questi livelli. Ah sì, eccoti! Non ti sentivi così dall’esordio in Serie C con la Turris nel 2021, quasi post-Covid, dopo la vittoria dell’infernale girone H di Serie D. Anche quella era una partita nervosa, anche quella era una specie di nuovo primo tempo. Ecco, forse le prime volte si possono rinnovare: quando fai qualcosa di importante dopo anni – dodici per l’esattezza dall’ultima volta che hai assistito a uno spareggio di Serie C – è quasi come se fosse una prima volta.

«La prima volta fa sempre male. La prima volta ti fa tremare»

Ma esattamente, lo è Quasi come la prima volta. Il corpo comincia a ricordare, a tremare, a tremare, il dolore si ricorda e ritorna subito, all’improvviso, come un colpo che non puoi attenuare ma che si autoalimenta in ogni gesto, postura o contatto. Lui lo ricorda bene, il corpo, quanto faceva male, forse più di te. Diventi altro mentre il corpo va per la tangente, ti stupisci della sua propensione all’autonomia. Cerchi di berlo per attenuarlo, magari attenuarlo, anche se sai benissimo che non funzionerà (in effetti non funzionerà). E poi ricomincia a far male, quasi più di prima, quasi come se dovesse avvisarti, quasi come quella funzione di autoconservazione che ha allontanato tante persone ma che ignoravi come se fosse un’autorità da deridere ma che questa volta si fa sentire come un’emergenza, immediata e catastrofica. Questa situazione ha un nome preciso ma banale: tensione. Lo senti sulla pelle e nelle viscere, lo senti nella coda per entrare, lo senti negli altri che ti stanno accanto, lo senti anche nelle forze dell’ordine. Lo senti ovunque, pervade l’ambiente rendendolo denso e difficile da navigare, lo vedi nella squadra in campo che sembra l’ombra di quella ammirata solo una decina di giorni fa e che aveva annientato lo stesso Latina, anche a casa sua.

“Sei tu. Sei tu. Sei tu, chi può darti di più?»

Allora finisce che non solo riconosci il dolore ma inizi a ricordare anche altre cose. Ecco come appariva lo stadio completo. Ecco com’era quando ribolliva di passione. Quella che stai affrontando è una catarsi – fortunatamente collettiva perché se limitata alla tua individualità saresti pronto ad alzare bandiera bianca e mettere in discussione lo stato della realtà. Così era quando i corpi vibravano, uno sopra l’altro, manipolati dal destino di una palla che rimbalzava in quel rettangolo verde che, per le tribune che lo circondano, qualcuno – senza timori né remore – definisce “casa mia”. “. Perché sarà ovvio dirlo, ma il tifo è un’esperienza situata e situato il desiderio di essa. Anzi molto posizionato, prossimale: la popolazione che occupa la tua stessa porzione di scalinata è ancora più emozionata quando l’azione si svolge proprio nelle loro vicinanze. Il calcio in serate come queste si dispiega in tutto il suo splendore come una vera e propria macchina desiderante, limpida e contingente come un bisogno imprescindibile, fisiologico. E in questa traiettoria del desiderio non solo provi piacere ma ti riconosci, cioè ti conosci ancora e allo stesso modo, sempre uguale nelle tue metamorfosi, e per tue intendi sia quelle del tuo corpo, che non è più lungo di quello che avevi quindici anni. fa, ma anche nel corpo dei tifosi, che è cambiato nella composizione e nel repertorio. Certo, sei circondato da volti familiari con cui stabilisci reciprocamente la tua essenza, ma anche da nuove figure, tra cui donne, ragazze e neonati, che rendono conto delle trasformazioni dell’esistenza, per non parlare dell’aggiunta dei passaggi che, ti faranno Vi dirò poi, in tv permette ai silenzi della curva di non lasciare senza protezione la voce degli spalti. E ci sono i ritornelli tradizionali – «conquista la vittoria» ha forse trent’anni e lo canti come se fosse il primo – così come altri emersi sul momento – «amore mio, dai, non essere geloso *» ha forse tre mesi e forse lo intoni come se fosse lì da sempre. Per certi versi andare allo stadio è un delirioche in inglese significa delirantema con la partita crea una forma comunitaria, collettiva e competitiva che forse solo le relazioni che si sviluppano tra i gradini e il rettangolo verde possono restituirti: mentre ti chiedi se questa vita può essere vissuta, riconosci, ancora una volta, che forse niente al mondo ti ha mai fatto sentire così vivo.

«La terza volta fa pensare. La quarta volta che guardi».

No, caro CCCP, su questo ti sbagli. Non guardi nemmeno la quinta o la sesta o la settima e così via: tutt’altro. Ti arrabbi, ti arrabbi, ti arrabbi, ti ferisci. Ma questo non vuol dire che raggiungerai l’oggetto del tuo desiderio e non hanno certo bisogno di dirti chi tifa il Taranto. In questo senso, niente come sostenere Taranto costituisce un esercizio collettivo di immaginazione, che costruisce un immaginario verso il quale siamo proiettati e che sappiamo, ingenuamente e ostinatamente convinti, che un giorno si trasformerà in realtà. Il nostro desiderio fino ad ora è questo: puramente fantasioso. Ed è per questo che a volte è così frustrante: martedì la voglia di segnare ci è rimasta in gola, come un coito interrotto, infatti non hai dormito forse perché tutta quella voglia di cui eri carico di pallottole andava buttata fuori . Ma nel frattempo abbiamo trasformato qualcosa, come il nostro rapporto con lo 0-0, un risultato che questa volta per noi rappresenta una vittoria mentre spesso ha costituito una sconfitta, come quando si giocarono i playoff l’ultima volta.

«In un eterno presente, che non puoi comprendere. L’ultima volta non arriva mai»

E il desiderio immaginativo è la nostra croce e la nostra delizia perché ti permette di continuare ad alimentare l’utopia verso cui tendi. Ma serate come queste non si dimenticano, anzi: noi non le dimentichiamo. Allora prendiamoci tutta questa soddisfazione, anche se temporanea, anche se momentanea, anche se terribilmente e ingenuamente situata. Per tutte quelle volte in cui abbiamo pensato che non sarebbe stato più possibile. Per tutte quelle volte in cui abbiamo provato a toccare il passato per ritenerlo irraggiungibile. Nonostante tutto il piacere che proviamo nell’essere sbagliati. Per tutta la gioia di ritrovarsi smentiti. Caro Taranto, vivi di emozioni che sai benissimo di regalarci: quello che hai avuto è solo un piccolissimo assaggio.

«Taranto magico, non conosco ostacoli. Che bella vita è, voglio viverla con te!»

Testo STiT
Foto di Fabio Mitidieri

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