Vicenza Jazz Nuove Conversazioni, prima parte – .

L’ensemble di Uri Caine, foto di Roberto de Biasio

Teatro Comunale

16-18 maggio

Un sogno lungo 88 tasti è stato il titolo scelto dal direttore artistico Riccardo Brazzale per la XXVIII edizione di Vicenza Jazz, che prevede numerosi concerti spalmati nella settimana tra il 13 e il 19 maggio. Come suggerisce il titolo, l’accento era posto sul ruolo del pianoforte nel jazz contemporaneo e nei territori adiacenti. Un dato inequivocabile che si ritrova in gran parte anche negli eventi ospitati dal Teatro Comunale nelle tre giornate qui prese in esame.

Pur basandosi su due progetti già registrati negli ultimi anni, il doppio set riservato a Uri Caine il 16 maggio ha offerto diversi spunti di riflessione. Onore a Ottavio Catto è l’adattamento di «La Passione di Ottavio Catto», un’opera per trio, voce solista, orchestra e coro dedicata alla figura di un’attivista per i diritti civili assassinata a Filadelfia nel 1871. Per l’occasione Caine allestì un settetto composto da un quartetto base con Barbara Walker (voce), Mike Boone (basso elettrico) e Jim Black (batteria), integrando durante la performance un trio composto da Joyce Hammann (violino), Ralph Alessi (tromba) e Achille Succi (sax contralto e clarinetto). Nelle intenzioni di Caine, i tre strumenti aggiunti hanno la funzione di svolgere il ruolo di un coro con efficaci impasti timbrici, oltre a intervenire in modo incisivo in alcuni passaggi informali. Nella partitura confluiscono alcuni elementi distintivi della tradizione della nativa Filadelfia. La componente gospel e r&b è veicolata dal contralto di Barbara Walker, intriso di a sentimento blues sangue; quella jazzistica è supportata da capienti armonizzazioni, corposi brani ritmici e concisi squarci di improvvisazione. Ciò che prevale assolutamente è la scrittura densa, la concezione collettiva e l’unità stilistica di quello che può ben definirsi un moderno esempio di opera afroamericana.

Uri Caine e Barbara Walker, foto di Roberto De Biasio

Nel centenario della prima rappresentazione di Rapsodia in blu, Caine ha pensato bene di riproporre una sua personale reinterpretazione, documentata su disco circa dieci anni fa. Questa sua revisione ha il merito di sviscerare ulteriormente – anche e soprattutto attraverso ingegnosi arrangiamenti e felici spunti improvvisativi – i principali tratti peculiari dell’opera di Gershwin. Tracce di ragtime si possono sentire nell’approccio pianistico stride, con particolare riferimento a James P. Johnson. L’elemento ebraico, di chiara origine klezmer, si identifica nelle ampie curve melodiche e negli sbalzi melismatici del clarinetto. Questi riferimenti si innestano, insieme a suggestioni e colori latini, su una visione armonica di matrice classica europea. Anche in questo contesto Caine dimostra la sua capacità di trattare materiali disparati con irriverenza giocosa, ma rispettosa. Come nel suo album omonimo del 2014, Caine ha aggiunto un’appendice vocale, con versioni oniriche e deliziosamente sfalsate di Ma non per me E Non possono portarmelo via interpretato da Theo Bleckmann; quello viscerale Schiaffeggia quel basso affidato a Barbara Walker, che ha poi eseguito l’esilarante duetto con Bleckmann Chiamiamo tutta la faccenda. Un aggiornamento utile per documentare e rinfrescare la pendenza popolare di Gershwin.

Omar Sosa e Marialy Pacheco, foto di Roberto De Biasio

Il doppio set del 17 maggio è stato incentrato su Omar Sosa. L’istrionico pianista cubano ha creato un dialogo telepatico condito di virtuosismo nel duo pianistico con la sua connazionale Marialy Pacheco, stabilendo una trasmissione continua di segnali, codici, spunti melodici e improvvisativi. Ancor prima, e ancor più, che nei temi e nei sistemi ritmici afrocubani (a dire il vero, a volte un po’ evidenti), le latenti connotazioni africane traspaiono dal tocco percussivo e dalle mutevoli figurazioni nel registro grave , e ogni tanto emergono inevitabilmente anche in tempi in cui il clima si tinge di un classicismo di matrice europea.

Omar Sosa e Paolo Fresu, foto di Roberto De Biasio

Invece Cibo – presentato già nel 2023 con Paolo Fresu per richiamare l’attenzione sul problema della penuria alimentare in varie parti del mondo e sulla conseguente ineguale distribuzione delle risorse alimentari – conferma di essere uno spettacolo ben confezionato, studiato nei minimi dettagli, a tratti accattivante. Ciò è giustificato dalla ricchezza di effetti, dall’abbondante uso dell’elettronica, dai mutevoli giochi di luce che, tra l’altro, illuminano sei padelle disposte in diversi punti della scena. Prevale nettamente il gusto per gli arabeschi melodici e per gli ornamenti cantabili, ma spesso prevedibili. Il risultato è una quasi totale mancanza di un’essenza veramente jazzistica nel linguaggio, che sconfina invece in atmosfere pop. Tanto che l’esecuzione più riuscita – per intensità, espressività e attenzione alle implicazioni melodiche – è la versione di Ciò che verrà di Pietro Gabriele.

Trilok Gurtu, foto di Roberto De Biasio

La serata del 18 maggio ha condotto il pubblico verso le più disparate modalità espressive e diversi approcci all’improvvisazione. Impegnato in uno prestazione solista concepito per simboleggiare i cinque elementi, il percussionista indiano Trilok Gurtu ha sfruttato intensamente le risorse offerte da un set composto da tamburi, tabla, tamburo a calice, oggetti vari. L’elemento più spiccatamente jazzistico si riscontra ovviamente nell’uso dei tamburi per la costruzione di figurazioni composite, circolari e vibranti. L’adesione ai dettami della musica classica indiana si esprime nelle molteplici scansioni applicate sulle tabla, talvolta intervallate dall’enunciazione vocale degli schemi ritmici. A livello tonale, gli accostamenti tra dhayan (il tamburo tabla più piccolo), tamburi e tamburo a calice. Quasi a significare l’accostamento di culture diverse.

Dhafer Youssef e Eivind Aarset, foto di Roberto De Biasio

In quest’ultimo punto di vista, l’incontro tra il tunisino Dhafer Youssef (oud e voce) e il chitarrista norvegese Eivind Aarset. Le scale arabe e le invenzioni melodiche dioud. I melismi e le slanci della voce (con estensione davvero impressionante) si armonizzano e si fondono con i climi eterei, dilatati dall’uso misurato dell’elettronica, e dalle sporadiche esplosioni elettriche della chitarra, sempre e comunque calibrate per timbri, dinamica e fraseggio . Youssef e Aarset sono accomunati dalla ricerca – condotta con modalità diverse per raggiungere l’obiettivo condiviso – di un rapporto fecondo con lo spazio. Unità di intenti, empatia e lavoro approfondito sul suono forniscono validi presupposti, nobilitandolo, per un progetto autentico, dotato di un’identità completa, che non rinuncia mai a esplorare le vie dell’improvvisazione.

Tutte e tre le serate del Comunale hanno riscosso un grande successo e ampi consensi da parte di un pubblico numeroso ed appassionato.

(continua)

Enzo Boddi

 
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