«Se chiama Carlo Conti rispondo di sì. Tra discografia e artisti troppi finti amici” – .

“Nel discografia Italiani e non solo non sono tutti pessimi, ma c’è ancora un’ignoranza di fondo. Molti artisti vengono presi e buttati via con estrema rapidità, mentre i cantanti dicono tutti di essere amici, ma non è così”. Michele Bravi, in questa intervista a Il Messaggero, si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Il cantante e musicista, nonché attore del film “Finamente l’Alba” di Saverio Costanzo e due volte giudice di Amici, è appena uscito il suo quarto album. Il titolo evocativo “Cosa vedi quando chiudi gli occhi”, nasconde un viaggio inedito e sensibile nei sentimenti, tra il sofisticato e il grottesco. Domani sera presenterà il suo lavoro aAuditorium Parco della Musica, a Roma, dopo il primo appuntamento al teatro di Milano. Per Bravi “l’amore è sempre un atto politico” e la mancata firma da parte dell’Italia della dichiarazione Ue sui diritti LGBTQI+ è “un’umiliazione per tutti”. Sanremo 2025? «Se Carlo Conti chiama e ho la canzone giusta, dico sì».

Torni tre anni dopo il tuo ultimo album, con un disco che ironicamente hai definito “un po’ poeta, un po’ pornostar”. Si passa dall’umorismo italiano al malumore francese, dal popolare al sofisticato. Con un’enfasi sull’erotismo e in dialogo anche con Carla Bruni e Guè Pequeno. Il nuovo Michele è più maturo e sensuale?

«Mi piace parlare di sensualità nei miei testi, ma quando scrivo non ho la presunzione di essere maturo. Anzi, direi che sono istintivo, senza il pregiudizio di escludere nulla. Mi piace raccontare l’erotismo in modo grottesco, ironico e sofisticato. Scrivere per me è una cosa epidermica”.

Una canzone dell’album si chiama “Dirty poetry”. Un ossimoro che ti rappresenta?

«La poesia sublima le cose, ma parte sempre dalla vita reale, riportandola in un altro linguaggio. Accanto a quella frase della poesia c’è anche “scopata in un parcheggio”. Non posso togliere la possibilità di raccontare tutto e anche il cosiddetto “marcio” è in realtà l’espressione sublimata delle cose concrete. La vita è fatta di quotidianità, quello che cerco di fare quando scrivo è cristallizzarla in canzoni, con il mio linguaggio”.

Un tema centrale dell’album è l’amore, visto in controluce: un po’ nostalgico e poetico, un po’ tossico. La cosa non ti riguarda, ma non credi che il concetto sia un po’ troppo inflazionato e banalizzato nella musica italiana?

«Inflazionato direi di no: tutto quello che scrivi inizia e alla fine è un movimento d’amore. Anche quando parlo d’altro il flusso delle parole è sempre riconducibile alla spinta dell’amore. Sicuramente a volte può essere banalizzato, e lo faccio anche io. Direi che è come quando un bambino fa dei disegni e li regala alla mamma: alcuni sembrano più belli e altri più brutti. C’è sempre il rischio di banalizzare, ma credo che l’intenzione sia positiva. E visto che lavoro così mi viene spontaneo pensare che lo facciano anche gli altri. Poi ovviamente il vocabolario di ogni artista è diverso e l’emozione di chi ascolta è soggettiva. Una questione di sensibilità distinte”.

La filosofa Hannah Arendt diceva che la politica è azione, cioè rivelarsi e mostrarsi in pubblico per quello che si è e per le proprie idee. L’amore, se vissuto pienamente, è un atto politico?

«L’amore è un atto totalmente politico. Tuttavia, direi che ogni atto quotidiano è in definitiva politico. Fare politica è gestire la propria vita in pubblico. Poi certo, la risonanza politica di un movimento artistico è un po’ più evidente, perché muove più persone e ha un pubblico di ascolto più ampio, ma il concetto si applica a ogni azione nello spazio comune. Pensare che le cose che accadono attorno a noi siano lontane da noi è l’errore più grande che possiamo commettere. Io stesso pensavo che una serie di diritti fossero la lotta degli altri, ma non è così”.

Sei rimasto deluso dal fatto che l’Italia non abbia firmato la dichiarazione dell’Unione Europea sui diritti LGBTQI+?

«Più che avermi scontentato, direi che è una sconfitta politica, un’umiliazione per tutti. Chi appartiene alla comunità non ha ottenuto ciò che sarebbe giusto: non riconoscere un diritto è un errore per tutti e per tutti, perché non aiuta l’intera società a crescere nella consapevolezza e nell’unione. Nelle nostre manifestazioni di piazza c’è un atto poetico, ma anche e soprattutto una richiesta concreta di riconoscimento da parte dello Stato di ciò che meritiamo come esseri umani uguali agli altri davanti alla legge”.

Tempo fa in un’intervista Arisa aveva affermato che è la comunità LGBTQi+ che deve avvicinarsi a chi la pensa diversamente, come l’attuale governo, e non viceversa, dimostrando che sono più “normali e wow di quanto sembri”. Molti erano indignati

«La comunità, e in essa includo anche Arisa, è un prisma di movimenti con idee diverse, non è un esercito completamente d’accordo su tutto. Ma il nostro punto di forza è pretendere che tutti siano ascoltati e garantiti. Quando parliamo di comunità LGBTQI+ pensiamo di chiedere la libertà di amare, ma ripeto: qui parliamo di essere pienamente riconosciuti dallo Stato, con una serie di diritti e istituzioni. Lo Stato italiano deve guardarci come guarda tutti gli altri e garantirci le stesse possibilità di vita, dal matrimonio alle adozioni, come realtà più “tradizionale” e “socialmente accettata”.

Stai avendo molte esperienze dal lato della musica. Hai recitato nel film “Finemente l’Alba” e sei stato due volte giudice di Amici. Sempre più artisti emergono dai social media, mentre i format dei talent show sembrano ormai “vecchi”. X Factor è in crisi, The Voice si è rivolto all’intrattenimento. L’unico che regge è Amici, chissà per quanto. I talenti sono destinati a scomparire in futuro?

«C’è stata sicuramente una fase in cui il talento sembrava l’unica strada, mentre oggi ce ne sono tante altre. Ma per chi fa pop c’è difficoltà ad emergere e la spiegazione è data dal mercato discografico: rispetto a 10 anni fa sono più forti indie, rap e trap. C’è molto da offrire e gli spazi sono pochi. Il pop ha bisogno di incontrare un vasto pubblico e per fare questo la vetrina dei talenti è la più accogliente, con l’auditorium più grande. Credo che tale contesto debba essere mantenuto. In poche parole, se non ci fosse stato il talento, non avrei avuto i mezzi e le conoscenze per emergere. Quella realtà mi ha permesso di studiare, di capirmi, di allenarmi davanti al pubblico. Certo, chi si sente giusto deve andare ai talent e non tutti hanno il carattere per farlo”.

Quando entri in un talent, però, sei legato a una delle tre grandi case discografiche italiane e se non fai colpo nel giro di pochi mesi rischi l’abbandono. Dopo aver vinto X Factor, a soli 19 anni, ti dissero che “eri finito”

«La discografia è legata al talento, ma molte volte si punta il dito contro il programma, pensando che siano loro gli sfruttatori. Invece è il mercato discografico italiano e non solo ad avere aspetti negativi”.

Hai fatto pace con questi aspetti negativi?

«Diciamo che non sono propositivo riguardo alla discografia, è un grande tema che mi rimane dentro anche nel presente. E con questo non voglio dire che nella discografia siano tutti pessimi, ma c’è ancora un grande limite e un’ignoranza di fondo.”

Vuoi togliere qualche sassolino dalla scarpa?

«La velocità con cui un artista viene portato a vendere e poi buttato via non rispetta la parte umana e professionale di un interprete musicale. Questa è una costante con cui lotto ancora ogni giorno. La velocità si scontra con la qualità. Quando i giovani mi chiedono consigli rispondo: indipendentemente dalla casa discografica, circondati di una squadra di cui ti puoi fidare. Perché l’artista non è un dipendente al 100%: non deve lavorare per la casa discografica, ma con la casa discografica”.

Tornando al talent, ti è dispiaciuto l’esclusione di Morgan da X Factor? Dopo che ti ha fatto da mentore, parli ancora?

«Parlo spesso con Marco, anche se adesso un po’ meno che in passato. È un vero artista, un genio musicale, con una scrittura meravigliosa. Sono tanti anni che parliamo di fare cose insieme, poi rimandiamo sempre per impegni”.

Eppure, intervistato da Nunzia De Girolamo a “Ciao Maschio”, ha detto di non avere amici nel mondo musicale

«Lo conosco principalmente come cantante, non come persona di spessore. In parole povere tra noi c’è una differenza di età e parlare di certi argomenti quotidiani forse mi sembrerebbe difficile. Ma è una bellissima persona, mi ha fatto capire e vedere le cose in modo diverso. In ogni caso credo che abbia centrato il punto: quel tipo di mercato discografico di cui parlavo creava molta concorrenza tra gli artisti. Pubblicamente c’è la forza di dire che siamo tutti amici e lo trovo sbagliato, in parte un po’ falso. Ho rapporti positivi con molti artisti, ma puoi contare i miei amici sulle dita. L’amicizia è una presenza quotidiana, non va confusa con il rispetto, la stima o la simpatia professionale”.

Torniamo alla luce: Carlo Conti ti ha portato al successo con Sanremo 2017. Vuoi ripeterlo nel 2025?

«Direi che è presto per parlare di Sanremo, ma con Carlo mi trovo molto bene. Se Carlo fosse contento e mi chiamasse, ovviamente: gli devo tutto e con la canzone giusta sarei felice. Sanremo è sempre Sanremo: suoni con un’orchestra spaziale e tutta l’Italia ti guarda. Se avessi una bella canzone a settembre la proporrei sicuramente”.

Intanto sei in tournée a teatro con i tuoi concerti. Domani sera all’Auditorium di Roma. Sei eccitato?

«Ogni concerto è emozionante. Questa però è la prima volta che suono all’Auditorium, con uno spettacolo pensato solo per la musica. Nei miei spettacoli precedenti c’era una parte in prosa, ora voglio far parlare solo voce e note. Il linguaggio del teatro è il mio preferito e l’audiotorio è uno dei luoghi in cui ho sempre desiderato recitare. Volevo avere al mio fianco un certo tipo di musicisti e un’atmosfera sonora particolare. Il primo appuntamento a Milano ha già avuto un impatto emotivo importante su di me e ora non vedo l’ora di giocare a Roma”.

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