C’è un posto normale dietro l’estetica del “Sicily Kitsch” – .

C’è un posto normale dietro l’estetica del “Sicily Kitsch” – .
C’è un posto normale dietro l’estetica del “Sicily Kitsch” – .

La mia libreria è la libreria Zaratan di Corso Umberto. È per motivi molto sentimentali, perché ci lavoravo da giovane e si chiamava Aleph (è una libreria che ha sempre avuto nomi borgesiani), servendo due direttori giovani come me, ma è anche perché la libreria Zaratan ha uno scaffale Sicilia (o meglio una sezione Sicilia) diverso da quello delle altre librerie siciliane, cioè una sezione Sicilia che non è una sezione Sicilia. Sgelidamente identifica un genere letterario e un certo tipo di estetica che può essere tradotto con Sicilia o siciliano solo fino a un certo punto, perché Sicilia si tratta di una sorta di elaborazione o meglio sofisticazione del kitsch siciliano in chiave ironica e patinata, spesso molto gradevole alla vista e molto curato, sia che si tratti di contenuti narrativi, visivi, residenziali, ricettivi, ricreativi, di design, ecc. delle caratteristiche del Sicilia è recuperare parole dialettali perdute, obsolete, etimologie inventate e farle diventare nomi di qualcosa, un bar, un negozio, un atelier. Il dipartimento Sicilia delle librerie siciliane è, come lo è la Sicilia in sé, un reparto molto intelligente: una volta sarebbe stato tutto burattini, carretti siciliani, pale di fichi d’india, arancini e marranzani, ma ora è tutto burattini e carretti siciliani e pale di fichi d’india, arancini e marranzani ma ironico. O sarebbe meglio dire autoironico.

Ci sono carretti, burattini, marranzani, arancini, coppole, fichi d’india, limoni, trinacrie sulle copertine di tanti volumi, libri di narrativa, libri di saggistica, o anche libri di fotografia, e l’astuzia dell’autoironia è spesso il merito ( o colpa, non posso mai decidere) dell’editore e del grafico. Direi più dell’editore, perché solitamente il grafico della casa editrice lavora su commissione, gli dicono di farmi una copertina Siciliafammi una pala di fichi, ma fammi uno straccio, fatto di pannolini, fammi un cartone animato, fammi un fico d’india con una faccia triste perché ha spine che non pungono, fammi così o così. Così o così nell’ultimo decennio significa colori pastello, cartone animato, sperimentale, collage un po’ pop art e un po’ trash Collezione, insomma, fammi Instagrammabile.

Sono ormai diverse le pubblicazioni, anche di persone molto serie, che denunciano questo fenomeno per cui l’intera Europa si è rilanciata in ottica Instagram (e a quanto pare funziona), e la Sicilia è una parte atipica del continente, come sempre, perché ha iniziato a vendersi come meta turistica mondiale proprio nello stesso periodo dell’esplosione dei social media, e in particolare di questi social.

È qualcosa che viene da lontano: la Sicilia arriva sempre in ritardo, ma ha la caratteristica di arrivare così tardi da essere prima di tutti (è il tipico paradosso siciliano, quello da cui deriva il luogo comune secondo cui la Sicilia anticipa i tempi nazionali) tendenze politiche, ecc.). Siamo quindi ovviamente arrivati ​​in ritardo anche nella promozione turistica del territorio in generale e online in particolare. Siamo arrivati ​​tardi perché ci siamo sviluppati tardi.

Per diventare turista devi in ​​qualche modo diventare bello. Prendersi cura della propria bellezza, da povera persona, è molto più difficile. Da povero, metti la praticità prima della bellezza, perché la praticità è necessaria per sopravvivere. Piazza Duomo, così grande e priva di illuminazione, era perfetta per un parcheggio e un cinema porno: rimetterla insieme e renderla una bellezza da cartolina sarebbe costato molto. E infatti abbiamo iniziato a farlo quando avevamo pochi soldi in tasca.

Siracusa prima della petrolchimica, ad esempio, era piuttosto disinteressata alla propria bellezza, i suoi luoghi “iconici” (termine molto Instagram, ve lo siete meritato) venivano utilizzati per operazioni molto pratiche, che spesso li deturpavano. Fino alla prima metà degli anni Ottanta, Piazza Duomo era un parcheggio.

Abbiamo cominciato a occuparci delle cose belle che avevamo sotto gli occhi quando potevamo permettercelo: i figli o i fratelli più piccoli di chi aveva lavorato nella petrolchimica, emancipati grazie allo stipendio fisso e sicuro e tutto sommato dignitoso dei familiari, potevano guardare ai luoghi e ai quartieri in modo disinteressato alla loro funzione pratica o di sopravvivenza, e ne vedevano le potenzialità. Potenzialità che, essendo pubbliche, andavano recuperate e valorizzate dalle risorse pubbliche. C’erano risorse pubbliche nel Comune o nella Provincia prima del benessere? Nemmeno un soldo. Dopo, invece, sì. Potevano essere utilizzate per valorizzare la bellezza e aumentare l’attrattività della città.

È una storia che tutto questo è iniziato timidamente (e prematuramente rispetto al resto dell’isola) verso la metà degli anni ’90, con il progetto Urban. Inutile dire che ha iniziato a funzionare bene dopo quasi vent’anni, l’era dei social, dei selfie, di Instagram. La Sicilia, e Siracusa in particolare, come meta turistica è nativa digitale. Quindi era già nata Sicilia. I l Sicilia da una parte è lo stereotipo, dall’altra è il suo antidoto, e ho l’impressione che sia una di quelle cosiddette cure omeopatiche, una specie di fiore di Bach che al massimo può darti un effetto placebo ma che poi non guarisce niente, anzi peggiora tutto. Se accettiamo l’idea che la turisticità di un luogo, cioè il suo abbellimento, vero o falso, non abbia importanza, o la sua vera prostituzione (a seconda che si sia melodrammatici o meno), sia possibile solo quando quel luogo raggiunge una forma di benessere materiale tale da consentirgli i “ritocchi” necessari per lanciarsi sul mercato della bellezza fotografabile, allora dovremmo essere tutti seriamente preoccupati per quello che sta succedendo.

La Sicilia passeggera parla della Sicilia in molti modi, e affronta in modo diverso la realtà di questa regione in ogni articolo, superando, integrando, scartando di lato rispetto alla Sicilia di cui ho parlato finora. Lo scarto è subito visibile nelle foto, che sono un po’ l’opposto della Sicilia. In effetti, qui ci sono tante cose, tanti luoghi, tante differenze, tanta varietà, ed è forse la prima volta che un volume monografico cerca di trasmettere la vastità geografica (la seconda più grande d’Italia) e antropologica di questa regione. Nella distanza che separa Siracusa da Trapani, forse è bene ricordarlo, c’è la stessa distanza che separa Roma da Bologna, quindi non solo due regioni insulari, ma il centro stesso da nord.

Il passeggero problema risolto Sicilia nell’unico modo in cui era possibile risolverlo, cioè con un colpo di genio: lo ignorò. Ha fatto un po’ finta che non esistesse, che è comunque un bel modo di trattarla, dal mio punto di vista: non si è limitato a rappresentarla, e invece ha fatto in modo di mostrarci questa regione attraverso tutto ciò che è la Sicilia. no, e quindi piantagioni di mango, polo petrolchimico, bullismo a Villa Bellini, scuole all’Arenella di Palermo, paesi delle Madonie senza bambini, e le fotografie del fotografo meno Instagram friendly della piazza. La Sicilia, per una volta, trattata come se fosse quella che è: una regione come tutte le altre, con l’estetica e i problemi di tutte le altre. Un posto quasi normale.

 
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