Erano le 3.10 del mattino del 30 giugno 2009 quando squillò il telefono di Daniela Rombi. Era un medico: “Chiamo dall’ospedale della Versilia, ti metto in contatto con tua figlia Emanuela”. Emanuela Menichetti aveva 21 anni e quel lunedì di inizio estate aveva pernottato a casa dell’amica Sara Orsi, in via Ponchielli a Viareggio. “Ho pensato subito che fosse stato un incidente. E invece no: “Mamma, c’è stato un incendio. Ma non preoccuparti, sto bene”, mi ha detto. Nient’altro.” Poco prima di mezzanotte, alle 23:48, un treno merci carico di GPL deraglia ai cancelli della stazione e il gas fuoriesce da un buco in un serbatoio rovesciato e riempie l’aria. Un’esplosione ha travolto i binari e le case di via Ponchielli. Emanuela si ritrovò in quell’inferno. Morirà dopo 42 giorni di agonia. Come Sara, 24 anni, e altre 30 persone, tra cui tre bambini, vittime della strage del treno di Viareggio. Le loro famiglie hanno costituito l’associazione “Il Mondo che vorrei”, di cui Rombi è presidente.
Daniela, oggi ricorrono 15 anni da quella notte e ancora una volta la città si ferma a ricordare…
“Da quella telefonata è cambiato tutto. Ero una donna normale, un’impiegata, una moglie. Mamma di due bambine. Mi sono ritrovata, insieme agli altri familiari, a studiare il sistema ferroviario con i ferrovieri, il sistema giudiziario con gli avvocati. A girare l’Italia con la foto di mia figlia sfigurata dal fuoco sul petto per raccontare cosa è successo”.
Ci sono voluti 15 anni e 5 gradi di giudizio, ma a gennaio la Corte di Cassazione ha stabilito cause e responsabilità, condannando gli allora 13 top manager delle aziende coinvolte. Compresi i vertici delle Ferrovie italiane.
“Verità e giustizia per noi sono più di uno slogan. Sono l’ultima promessa d’amore. Abbiamo capito subito la verità: i nostri cari erano morti in un incidente che, dicono i giudici, si poteva evitare. Emanuela oggi avrebbe 36 anni, sarebbe zia di tre nipoti che non ha mai conosciuto a causa delle inefficienze e dei fallimenti nei controlli sui trasporti ferroviari”.
E la giustizia?
“Con il tempo, causa prescrizione, si è perso per strada. Ne rimane un briciolo, ma è un risultato storico. Cosa che abbiamo ottenuto rimanendo parti civili nel processo. Partecipando a ogni udienza, rivivendo centinaia di volte quella notte in aula. Quindici anni vissuti così”.
“Il mondo che vorrei” si batte da sempre per la verità, la giustizia e la sicurezza.
“E continueremo a farlo, perché sono ancora troppe le vittime del lavoro. E per noi tutto questo è inaccettabile”.
Il processo non è finito.
“Arriveremo a sette gradi di giudizio, per la rideterminazione delle sentenze. Una storia più unica che rara.”
Signora Daniela, che tipo di donna è oggi?
“La morte di un figlio non può essere superata. Ma ho imparato ad abbracciare il dolore. Perché la vita è preziosa, ecco perché deve essere protetta. Ed ecco perché voglio viverla al meglio.”
Martina Del Chicca