non mi ha mai detto “bravo”» – .

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non mi ha mai detto “bravo”» – .

DiChiara Maffioletti

Intervista allo chef Antonino Cannavacciuolo, in tv con «Cucine da Incubo»: «A volte prendo spunto da quelle esperienze – come nel caso di una padella di ferro. Non mi stanca mai stare in cucina, sono felice così”

Più che di incubi, per Antonino Cannavacciulo dovremmo parlare di sogni. Perché per lo chef sette stelle – e con una carriera altrettanto luminosa in tv, dove è tornato dal 16 maggio con una nuova stagione di Cucine da incubo (su Sky Uno e in streaming su Now) – la cucina resta questa, il suo desiderio realizzato, il suo posto di pace. «Succede anche a chi ha un hobby in palestra: si sveglia prima per andare, dice che una volta lì si sente meglio. Ecco, con la cucina mi succede questo: esserci non è mai una fatica, mi diverto. Apro lì la mia giornata e cerco di restarci: è il posto più bello dove posso stare, dove sono davvero tranquillo. Se mi porti via dalla mia cucina ho finito di vivere.

Veramente?
«Ma certo in cucina, con chef che lavorano come me, cerchiamo sempre di inventare cose nuove: sperimenti e vedi se nasce qualcosa… ecco perché faccio di tutto per esserci, anche quando registro. Ogni volta che posso torno a Villa Crespi e questa è la mia fortuna, quella che ci ha portato alla terza stella. Il mio primo obiettivo era, è e sarà sempre la cucina”.

Ma è un dato di fatto che, con la popolarità raggiunta attraverso la televisione, la sua vita è cambiata, giusto?
«È vero, è cambiato. Ha aiutato tante cose a crescere, ma la mia strada era già scritta: sapevo già cosa volevo fare, la mia idea di imprenditorialità legata al cibo. Ho investito i primi soldi che arrivavano dalla TV in azienda, innanzitutto per far stare meglio chi ci lavora: ho ristrutturato tutta la cucina di Villa Crespi, l’ho resa una cucina professionale, così come Laqua o il Banco di Cannavacciuolo (gli altri suoi ristoranti)”.

Nel 2013 ha debuttato in TV con Nightmare Kitchens.
«È un programma a cui sono molto legato perché l’obiettivo è rendere felici le persone. Spesso, quando riparto, la gente piange: questo dà l’idea di quanto mi dedico, anima e corpo, a far rivivere un ristorante in un momento di difficoltà. Ogni volta che passo tre giorni lì e sono sempre tre giorni di duro lavoro”.

Qual è la lotta più grande?
«Il lavoro mentale che c’è dietro. Devo diventare una sorta di coach motivazionale, è difficile. Nella ristorazione è facile arrivarci ma difficile mantenere un certo livello: devi trovare stimoli ogni giorno, è la parte più complessa”.

Prima regola per raggiungere questo obiettivo?
“Orari. Non si può pensare di entrare in servizio alle 11.30 e poi aprire alle 12. Anche le nonne o le mamme, quando avevano voglia di fare qualcosa di buono, cominciavano a cucinare alle 6 del mattino. Ti sei alzato e già sentivi il profumo della cipolla nell’aria… hai bisogno di quel tipo di amore.”

Non deve essere facile restituirlo a qualcuno che lo ha perso, vero?
«Per me è allenamento. Mi alleno e poi torno a giocare nella mia cucina. Ogni volta che propongo piatti diversi non voglio ripetermi, per questo ci lavoro insieme ai miei chef. Ed è anche capitato che io a mia volta prendessi da quelle cucine qualche spunto, magari derivante dall’arte di arrangiarsi, qualcosa che nelle cucine professionali è andato perduto. Come quando mi sono accorta che, utilizzando una padella di ferro, veniva fuori una crosta ancora più buona del solito. Non abbiamo più le pentole di ferro, ma in quella cucina dovevo usarle perché ce n’era una sola. L’ho ricomprato.”

Pensi che tre giorni siano sufficienti per cambiare le sorti di un ristorante?
«Non ho la bacchetta magica: in tre giorni posso provare a ritrovare la motivazione perduta, aprire gli occhi alle persone sul loro ristorante… Non accetterei che il lavoro che facciamo sul ristorante non fosse serio, nemmeno quando si parla di rinnovamento del locale, che non è solo facciata. Ma se dopo tutto questo le vostre abitudini non cambiano, è chiaro che tre giorni non bastano. Quello che so è che torno sempre a casa con la coscienza pulita, oltre che distrutto, perché so di aver dato mentalmente e fisicamente tutto ciò che avevo”.

Non glielo dice. Eppure tutti la amano. Una dote.
«Sono sincero ma in effetti spesso i ristoratori, soprattutto le signore, alla fine mi inseguono, mi abbracciano. Magari vedono che mi dedico a loro, non sono lì solo per fare spettacolo, tanto che tante volte sono gli autori a dirmi: basta, dobbiamo andare. Sono empatico.

Sapeva di essere un bravo chef. Hai mai avuto dubbi di non essere abbastanza bravo in TV? Magari prima del debutto?
«Sono entrato a Villa Crespi quando avevo 23 anni e con me lavoravano 15 persone. È stata una sfida fatta ad un’età che è anche quella giusta per sbagliare. Oggi siamo 70. Per fare questo era fondamentale comunicare, motivare le persone e creare una squadra. Già vent’anni fa dicevo che il servizio vale più della stanza, per così dire”.

Una visione che purtroppo non tutti i suoi colleghi ristoratori condividono. Pensi che in Italia ci stiamo un po’ assestando, magari grazie al motto che la nostra è la migliore cucina del mondo?
«La “nostra” cucina non esiste, esiste una sola cucina: quella buona. Certamente in Italia abbiamo ottimi prodotti, i migliori, e ogni campanile ha la sua ricetta. Ma la cucina ha sapori e contaminazioni da tutto il mondo. Ogni tanto leggo persone che si ribellano perché si cambia un ingrediente in un piatto tipico, e allora mi viene voglia di farlo, per provocazione: non stiamo salvando vite umane, cucinare è un piacere, dobbiamo farlo come sappiamo piace di più».

È entrato in tante cucine da incubo, ma ce n’è una in cui sognerebbe di andare, magari per spiare qualcosa?
«Farei una bella esperienza nel mondo giapponese: hanno una cultura, un pensiero proprio. C’è qualcosa di sacro attorno a un ingrediente, penso alla soia, che potresti quasi bere perché è buona, un condimento perfetto. Amo la connessione che si crea in quei luoghi tra l’uomo, il cibo e l’universo. Accarezzano il cibo, questo fa la differenza”.

E, quando ancora non esistevano le telecamere, siete mai entrati in una cucina da incubo?
«Ho avuto la fortuna e la sfortuna allo stesso tempo di avere un padre chef, quindi sono entrato subito nelle cucine a 5 stelle. Grazie alla consulenza di Marchesi nel ristorante dove lavoravo, ho capito cosa fosse il mondo stellato: fino a quel momento pensavo di essere bravo, e invece all’improvviso sono passato dalle scuole medie all’università”.

«MIO PADRE VOLEVA CHE FOSSI MEDICO O ARCHITETTO,
MA A 13 ANNI SONO OSTRUTTIVO
E GLI HO DETTO: O FACCIO IL CUOCO O NIENTE”

Non è semplice…
«In quel periodo avevo perso 15 chili in poco tempo: ero arrivato a pesare 78 chili per la concentrazione che davo al lavoro. Quando tornavo a casa leggevo libri di cucina, mi dedicavo al cento per cento. Poi, verso la fine degli anni ’90, ci sono stati due anni di continui errori”.

In che senso?
«Volevo stupire, a tutti i costi. Sorprendente con accostamenti strani, insomma mi sbagliavo. Poi nel 2002 ho iniziato a parlare di ingredienti e le cose sono cambiate”.

Suo padre non voleva che facesse lo chef. Ti ha detto oggi che è bravo?
«Quando me lo dirà te lo dirò – ride -. Adesso tra noi c’è un gioco: io gli preparo qualcosa e poi gli chiedo “allora papà, ho imparato qualcosa?”. Ma non ha fatto nulla. So che si vanta di suo figlio con gli altri, ma non con me.

Cosa sognava per lei?
«Aveva altri due lavori oltre a fare il cuoco, lavorava tantissimo per noi. Forse è per questo che voleva che facessi il medico, o l’architetto, l’avvocato… Ho insistito e a 13 anni gli ho detto: o mi fai fare il cuoco o non faccio niente».

Le soddisfazioni sono arrivate presto.
«Nel 2003 è uscita la mia prima copertina, in ottobre. All’interno il giornalista scriveva che il mio era probabilmente il miglior ristorante d’Italia. Ero molto felice, allora nessuno mi conosceva veramente. Non volevo mandare il giornale a mio padre, ho aspettato gennaio per darglielo a mano. Ha visto la copertina e non si è arrabbiato, è andato a leggere l’articolo. Poi è tornato, mi ha restituito il giornale e mi ha detto: se quello che c’è scritto è vero allora ci deve essere un seguito, altrimenti non è vero niente”.

Ecco. C’è stato molto seguito.
«Diciamo che mio padre, a differenza di me, è un grande comunicatore anche senza parlare. Il suo esempio è il mio più grande insegnamento. Forse non era molto presente ma, allo stesso tempo, un turbine su di me. Ha dato tantissimo a me, così come a tutta la sua famiglia per farci stare bene. Aveva pagato la struttura che dirigo a Vico Equense: aveva puntato tutto su un’attività per me, per suo figlio».

Ha iniziato a lavorare da giovanissimo e si è fatto crescere la barba per sembrare più vecchio. In tv ritrova un po’ di quella leggerezza che prima non poteva permettersi?
«In realtà anche dietro programmi di successo come quelli che ho la fortuna di fare non c’è spensieratezza ma gruppi di persone che lavorano dalla mattina alla sera. Penso anche a Masterchef (sono in corso le riprese della 14a stagione): ci sono persone che da 14 anni mettono anima e cuore per questo programma che, ancora oggi, resta attesissimo. Insomma, dietro tutto questo c’è una macchina da guerra: pensavo che il lavoro fosse estenuante, ma lo era anche la televisione…”.

Sei uno chef capace di motivare tanti colleghi. C’è qualcuno che le ha fatto questo?
«Diversi, penso a Pierangelini, Vissani, Marchesi. Ma anche Ezio Santin: quando sono andato a mangiare all’Antica Osteria del Ponte ho detto “Wow”. È stata una luce che si è accesa nella mia vita”. E non si è mai più spento.

26 maggio 2024 (modificato il 26 maggio 2024 | 13:12)

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