quando Coppi ha reso omaggio a Valentino Mazzola – .

quando Coppi ha reso omaggio a Valentino Mazzola – .
quando Coppi ha reso omaggio a Valentino Mazzola – .

DiAldo Grasso

Oggi parte il Giro d’Italia e il gruppo passerà da Superga: Coppi, tifoso granata, dopo essere andato a rendere omaggio all’amico Valentino Mazzola, ha ricordato gli Invincibili, entrando a sua volta nella leggenda con la tappa Cuneo-Pinerolo, la tappa più bella come sempre

Oggi 4 maggio, parte il Giro d’Italia e il gruppo valicherà la collina di Superga per onorare il Grande Torino, a quota 75 anni dopo la tragedia. Il ciclismo rende omaggio agli Invincibili, anche nel ricordo di una delle imprese più memorabili della sua storia, quella di Fausto Coppi, grande tifoso Granata. Coppi era amico di Valentino Mazzola e, dopo essere andato con tutta la carovana a onorare i caduti di Superga, si è sentito quasi obbligato a ricordare quei ragazzi con un gesto eroico: la Cuneo-Pinerolo del 10 giugno, tappa numero 17 del Giro d’Italia 1949, è la palco più bello di sempre.

Coppi ha trionfato dopo un’impressionante fuga di 190 km. Primo su tutte le vette delle Alpi italo-francesi (Colle della Maddalena, 1996 m, Vars, 2111 m, Izoard, 2360 m, Monginevro, 1850 m, Sestriere, 2033 m) e primo al traguardo finale con quasi dodici minuti davanti a Gino Bartali.

Un’impresa leggendaria, un incipit indimenticabile

È la famosa scena dell’incipit della rl’diocronista Mario Ferretti: «Un solo uomo comanda, la sua maglia è biancoazzurra, si chiama Fausto Coppi. Un’impresa storica, irripetibile, leggendaria. Le figure del mito vivono molte vite e molte morti; E la leggenda del Torino e Fausto Coppi emanano ancora una forza prodigiosa, l’audacia di ciò che ci allontana dalla quotidianità e scuote il cuore di emozioni.

Sostenere il Toro significa innanzitutto alimentare la fiaccola della memoria, una fiamma che arde mani e cuori, perché sappiamo bene che non ci sarà mai più una squadra simile. Sappiamo, però, che quella fiamma dovrà essere alimentata per sempre, come dovere etico, perché nel calcio, come nella vita, non esiste compensazione per la memoria, la soddisfazione di questa è stata raggiunta una volta per tutte.

Quando è avvenuta la tragedia avevo solo un anno. Ho poi saputo che in casa mia tutti piangevano e quelle lacrime dovettero lasciarmi sgomento per molto tempo di fronte a ciò che si vede nell’invisibile, nel buio, nell’indistinto. I miei genitori non erano tifosi ma erano commossi, come a volte si commuovono i piemontesi, perché quella squadra era più che una patria, era un’invenzione celeste che accetta misteriosamente di apparire umana. Per questo è morto. O meglio: si congedò seguendo il proprio destino, in quella nebbiosa giornata di maggio. Da bambino, ogni estate andavo in campagna a trovare i miei nonni e uno dei miei zii, che era stato presente al funerale, cominciava a parlare e ad emozionarsi. Ogni volta la storia sembrava nuova, perché lo zio vi aggiungeva qualcosa come se vivesse all’interno di un film: per ogni mito narrato, c’è un mito mai raccontato che lo accenna dall’ombra, emergendo attraverso allusioni, schegge, coincidenze, invenzioni. .

Ho calciato seriamente il pallone in uno stadio intitolato a Valerio Bacigalupo: il portiere era nato a Vado Ligure e il Savona gli aveva dedicato il nuovo stadio. Sul pullman che mi portava a Legino immaginavo di essere sul Conte Rosso, l’autobus del Grande Torino (rosso perché le normative dell’epoca imponevano quel colore ai veicoli che coprivano molti chilometri in un unico percorso). Quando i calciatori furono omaggiati nelle esequie funebri, tra due ali di folla che le strade e le piazze di Torino faticarono a contenere, il corteo fu aperto dallo stesso Conte Rosso, elencato a lutto.

Nel 1976, quando il Toro vinse il suo ultimo scudetto (“pagato” prima con la morte di Gigi Meroni e poi con quella di Giorgio Ferrini, il capitano) un lungo corteo si snodava dal Comunale a Superga: accanto a me tante persone che non conoscevo, accomunate da un senso di inafferrabile felicità, come dovevano essere stati i tempi del Grande Torino. Per darmi coraggio, ogni volta mi dico: non c’è squadra come il Toro che abbia uno così un’elevata ricchezza di sentimenti, un passato mitico, il senso di appartenenza, una forza dolorosa capace di tremare dall’interno.

Spesso si sostiene che il calcio è solo presente e non ha memoria: la vittoria di ieri non lenisce la ferita della sconfitta di oggi. Per il Toro è diverso: la sua storia è permeata di passato e di ricordi, i sentimenti che ispira non riguardano solo il risultato del campo, il mero desiderio di vittoria o di rivincita. Sono emozioni più tortuose, più rugose, più complesse e anche malinconiche (la malinconia frantuma la falsa felicità).

Lo sport, in particolare il calcio e il ciclismo, non esiste se non contiene i sentimenti che governano la vita: coraggio, solidarietà, nobiltà ma anche vergogna, vendetta, invidia. Se non c’è epica e disturbo. Per questo, ogni tanto, ricreo mentalmente la radiocronaca Cuneo-Pinerolo e cerco di entrare nei pensieri di Fausto Coppi, nel desiderio di rendere omaggio fino all’estrema agonia all’amico Valentino Mazzola. Quel giorno Coppi non pedalava solo per vincere ma per riservarsi un posto nella leggenda, al fianco degli Invincibili.
Tutti i miti hanno un tempo fisso, un climax, una morte. Quelli che durarono di più furono quelli antichi, perché non c’erano, o quasi, i media. C’era però il senso del tragico, della misura implacabile della nostra piccolezza.

4 maggio 2024

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