Agonia Fiat, Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta non sono più con noi, di Emanuele Torreggiani – .

Agonia Fiat, Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta non sono più con noi, di Emanuele Torreggiani – .
Agonia Fiat, Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta non sono più con noi, di Emanuele Torreggiani – .

Il corto, scendendo dalle Prealpi, stendeva le migliaia di bandiere rosse attaccate alle impennate della porta di Mirafiori, quel giorno, ormai decennale, era un’esperienza della ‘Cavalleria Rossa’ di Kazimir Malevich.

No, non oggi. Oggi la pioggerellina stende il freddo come un sudario. Guarda là, dove svolta il marciapiede di corso Giovanni Agnelli. C’è un solo uomo, il passo metodico del camminatore. Ecco che si ferma, con la mano aggancia una stecca opaca del cancello. Le sue dita, se osservi, sono tatuate dal lavoro, l’unghia dell’indice destro cremata mediante saldatura. Avvicina il viso. Scruta. Nessuno. Non c’è nessuno. Gira la testa per ascoltare. Silenzio. Il silenzio fossile di un cimitero di campagna oltre il crepuscolo, anche quando tace il grillo. La grande fabbrica, morta. Se glielo chiedeste: Giuseppe Serratore. Ottanta anni. Ragazzo calabrese, bracciante agricolo trapiantato a Torino, anni ’60. Uno tra mille e mille e mille. Semplice operaio, poi attrezzista del reparto motori. Cammina lungo il marciapiede deserto. Rivoltò il filo sbrindellato delle maniche del suo cappotto invernale. Lo so, se Anna fosse stata ancora viva saresti finita nella spazzatura qualche anno fa. Oppure lo avrebbe cucito con cura, inserendo delle passamanerie a contrasto per farlo sembrare elegante.

Ma non c’è. No non c’è. Non ci sono più nemmeno Giulia, la nipote Arianna e il figlio Salvatore, l’ingegnere. Sono in Germania. A Stoccarda suo figlio lavora già presso Porsche. Prima era a Grugliasco, su una Maserati. Si occupava di sviluppo, Salvatore era ingegnere meccanico al Politecnico di Torino e assunto alla Fiat il giorno dopo la laurea. Se n’è andato tre giorni dopo il funerale dell’americano. Ci ha visto nel lungo periodo. In Porsche lo presero al volo, gli trovarono anche casa per un anno. l’americano scese in corsia in maglione, si sedette alla panca a otto cilindri e fumò una Marlboro, tenendo la sigaretta nella coppa, suggellando l’origine contadina. Gli è stato spiegato tutto. Diceva che era come vedere una creatura nascere, un travaglio. Ha maneggiato una chiave dinamometrica per chiudere una banca, si è asciugato le mani con lo straccio e ha detto che nella prossima vita avrebbe costruito motori. Non ci sarà un’altra vita, non fanno più motori, gli fa eco Giuseppe mentre passeggia lungo corso Giovanni Agnelli. Ancora una volta l’entusiasta americano chiese a Salvatore la differenza tra la Otto Maserati e la Otto Ford, il coyote. Ebbene, ha detto Salvatore, noi siamo sempre pionieri. Sergio Marchionne annuì, è tutto qui, aveva detto. E questa è tutta la differenza. Quando cominciò a sentirsi male, si presentò un ragazzo, poco più grande, pallido, magro, camminava inamidato. Non si guardò intorno. Il suo sorriso stampato nella cera. Salvatore e un altro chiamarono in Germania lo stesso giorno. Poi gli ha detto, papà, tra qualche anno finirà qui. Se il buongiorno si vede dal mattino, è già sera. Queste sono persone senza storia. E andò in Germania.

In sei anni era tutto finito. La grande fabbrica, che era la cattedrale del lavoro, avvolta da un’aria immobile che profuma di incenso. Giuseppe Serratore attraversa il Corso, va al bar del suo operaio, si siede e prende un cappuccino caldo decaffeinato. Guarda la scritta sulla vetrina, licenza e immobile in vendita. Facevano duemila caffè al giorno, oggi se arrivano a cinquanta sono tanti. In vendita, ovunque. Se ne va anche Giuseppe. Ritorna in Calabria, nella terra paterna, che fu del nonno e così via fino a perderne la memoria. Il suo piccolo appartamento è stato acquistato da un rumeno che vende Ford. Torino è piena di Ford e di auto giapponesi. Ritorna in Calabria alla terra. L’uomo è terra. E torna a casa. E’ solo un vecchio. Tu sai zampettare le mosche, gli aveva detto Vittorio Ghidella, l’ingegnere. Ma adesso, che importa? Guardatelo, cammina lungo la strada che costeggia la grande fabbrica dipinta nella prospettiva deformante di De Chirico dove ogni uomo scompare

 
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