trovato una molecola che potrebbe chiarire cosa è successo – .

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Mesalazina. Una parola di 5 sillabe, molto strana e insolita, può aiutarci a spiegare un caso altrettanto strano e insolito come la scomparsa e la morte, nella città di Trieste, di Liliana Resinovich.

Questa molecola viene utilizzata in farmacia e, secondo l’autopsia, è stato trovato nel corpo di Liliana. Non è in grado di uccidere. Potrebbe però essere un indicatore per capire cosa sia successo quando Liliana è scomparsa da casa sua. Vediamo come e perché.

È metà dicembre 2021, esattamente il 14, quando Lilly, come la chiamano tutti, esce di casa la mattina. Non tornerà. Il suo corpo, avvolto in sacchetti di plastica, verrà ritrovato all’inizio di gennaio, in un bosco non lontano da un luogo, caro a Lilly, chiamato Il posto delle fragole.

Arrivano la polizia e il medico legale. La signora scomparsa è stata quindi ritrovata “in una zona di passaggio stretto e con fondo pedonale ma impervia e insidiosa”, tra una recinzione e un dirupo. Una borsa nera avvolge la “testa e le regioni superiori del torace”. E «una borsa simile, pulita e intatta anche all’esterno» contiene «una buona parte dell’addome e degli arti inferiori. Non c’era presenza esterna di legature, ad esempio con corde o nastro adesivo”.

Stanno tutti attenti, si legge nei documenti ufficiali, a non “manipolare eccessivamente il cadavere per non disperdere alcuna traccia”. Sotto la borsa nera “emergono due buste di plastica sottili e integre, leggermente opache e con scritte verdi, come su verdure. Tali borse erano chiuse, all’altezza del collo, con uno spago legato, ma non molto stretto e con un nodo non presente nella zona laterale cervicale sinistra”.

Per prima cosa viene eseguita una TAC. Poi l’autopsia. E per la scienza non ci sono misteri: “Non vi sono segnali che possano essere riconducibili a violenza altrui o comunque chiaramente riconducibili ad un reato”. Inoltre, “la morte è avvenuta entro e non oltre 48 ore dal ritrovamento del cadavere”.

I sacchi della spazzatura – ricordiamolo ancora una volta – sono integri e nello stomaco di Lilly si trovano tracce dell’ultima colazione. La Procura di Trieste, fidandosi della scienza, decide quindi di chiedere l’archiviazione. Per gli investigatori la diagnosi di questo caso è molto semplice. Liliana ha deciso di concedersi “una morte asfissiata come in uno spazio confinato (‘soffocamento da busta di plastica’) senza grosse legature o emorragie al collo”. Fine del caso.

Già. Ma chi dice che è la fine? La procura? Naturalmente, però, la chiusura (temporanea) del dossier suicidio non chiude automaticamente il mistero. Anzi, è qui che iniziano le domande (e il bisogno di verità) dei parenti delle Liliane, della gente comune, dei giornalisti.

Una domanda – inutile per gli inquirenti – svetta su tutte le altre: ma se la nostra Lilly è morta da due o tre giorni, in tutti gli altri da dicembre all’altro ieri, dov’è stata? Dicci. Ti sei rifugiato nella casa di un amico o di un’amica? Hai soggiornato in un albergo senza registrarti? Sei stato accolto in convento sotto falso nome? Oppure era prigioniera? È stata manipolata?

Di fronte a queste domande, forse irrilevanti, certamente legittime, la procura decide di non rispondere: il caso deve essere chiuso come suicidio, non c’è mano esterna e quindi agli investigatori non importa dove sia stata Lilly.

Insomma, la scienza ha parlato chiaro, dal suo punto di vista. La magistratura ha tratto le sue conclusioni, dal punto di vista del codice di procedura. È tutto chiaro, vero?

No, e infatti contro questa granitica chiarezza, mese dopo mese, si scagliano domande, allusioni, suggestioni, che si trasformano in una cascata, un fiume in piena, una tempesta che tra social e tv fa conoscere il caso di Lilly a milioni di persone.

E anche la stessa magistratura, attraverso il giudice per le indagini preliminari, cambia prospettiva. Non accetta più la proposta di licenziamento per suicidio “punto e basta”. Chiede ulteriori accertamenti. Chiede – attenzione – alla scienza di pronunciarsi ancora una volta: è necessaria una nuova autopsia. Più approfondito del primo. E i nuovi medici legali dovranno anche stabilire qualcosa che (a noi) sembra a metà tra il surreale e la fantascienza: cioè escludere che il corpo di Lilly, scomparso a dicembre, sia stato congelato fino a gennaio per riapparire, all’improvviso, il la collina che sovrasta Trieste. Cioè, lo sentiamo ripetere sui social, “Lilly è morta subito”, a dicembre.

Tuttavia, il pensiero scientifico, indipendentemente da qualsiasi autopsia, dovrebbe continuare a guidarci. Pertanto, finora nel mondo non esiste un metodo di congelamento che non lasci tracce sul corpo. Quando un corpo muore, tutto inizia immediatamente la sua decomposizione. Questo concetto è noto agli scienziati, e non solo, da diverse centinaia di anni.

La scienza ha fatto passi da gigante negli ultimi tempi. Se il corpo di Lilly fosse stato congelato, perché non ci sono tracce di questo gelo che avvolgeva il suo corpo? Come mai il bulbo oculare di Lilly era ancora a posto e non si era completamente congelato? E senza entrare troppo nei dettagli, come è stato portato un corpo congelato in una foresta che domina una città? E come si è scongelato? E perché non ci sono più tracce (pozzanghere?) di questo assurdo disgelo?

Il pensiero scientifico suggerirebbe anche altre incongruenze a chi sostiene che il corpo sia stato portato nel bosco da qualcuno e che Lilly non ci sia arrivata con le sue sole gambe: innanzitutto esistono delle macchie ipostatiche. Quando un essere umano muore, il suo cuore smette di battere, quindi il sangue smette di pulsare. Maneggiare un corpo in queste condizioni implica lasciare segni.

Non si trasporta un corpo con la forza del pensiero, ma con le mani, con una corda, con una carrucola, con una carriola. Con tutto ciò che, a contatto con il corpo, lascia il segno. Tutti questi segni sul corpo di Lilli, secondo la prima autopsia, loro non sono qui.

L’autopsia racconta – nonostante chi ipotizza congelatori e congelatori – la storia di un corpo umano che ha smesso di vivere da poco. E su questo importantissimo dettaglio non possono esserci seri dubbi: almeno non si crede che il film “2001 Odissea nello spazio” abbia a Trieste una diramazione meno fantasiosa. Oppure, viceversa, bisogna prendere in considerazione l’ipotesi – a nostro avviso impossibile – che l’autopsia fosse completamente sbagliata e che i medici non abbiano visto il congelamento.

Adesso la sfiducia nei confronti dei medici può diffondersi, ma solo fino a un certo punto. Meglio cioè credere ai fatti e non a quelli che Leonardo Sciascia chiamava “i fantasmi dei fatti”. L’autopsia, che si svolge alla presenza di diverse persone e che produce diversi verbali, non ha mentito.

Ma ci siamo resi conto che… qui torniamo alla mesalazina – di un errore imprudente. Cioè negli esami tossicologici sulla Lilly si parla di “aspirina”, ma non è così. Secondo quanto scrivono i medici sarebbero infatti state rilevate tracce di acido 5-aminosalicilico e 8-idrossichinolina. Il primo composto nelle urine, il secondo composto nel sangue.

Secondo l’autopsia il primo composto indica – ecco l’errore – la precedente assunzione di un’aspirina o di una comune tachipirina. Cioè, un gruppo amminico è stato scambiato con un gruppo acetile. L’acido 5-aminosalicilico, infatti, non si trova nell’aspirina, ma nella mesalazina, cioè in un farmaco che viene venduto solo con prescrizione medica e che viene utilizzato più frequentemente per curare il morbo di Crohn o le infiammazioni intestinali.

Pertanto, se Lilli è morta a gennaio, e non soffriva del morbo di Crohn, deve essere venuta in contatto con la mesalazina (che viene eliminata in circa 36 ore) proprio dove viveva: forse in casa di una persona che soffre di patologie intestinali ? E forse nella casa di questa persona vengono utilizzati pesticidi a base di 8-idrossichinolina?

Gli investigatori hanno considerato irrilevante sapere dove Lilly fosse stata irrilevante per chiudere il caso e, come abbiamo visto più di due anni dopo, la decisione divenne il più classico dei boomerang. Ma forse oggi c’è – grazie alla mesalazina, scambiata per aspirina – la possibilità di capire dove Lilly, suicidata secondo gli inquirenti, è stata ricoverata per un lungo periodo: che immaginiamo di riflessione e di dolore, di ragionamenti sul futuro e di il passato.

Non saremmo arrivati ​​fin qui se in un’epoca come la nostra il pensiero scientifico non fosse continuamente turbato dal non pensiero, dal pensiero romantico, da ipotesi che non hanno alcun fondamento nella realtà.

Più che un mistero, quello della povera Liliana Resinovich è infatti un mistero: una donna apparentemente tranquilla, come tante di noi, che una mattina come tante, sempre uguale, ripetitiva, monotona, esce di casa: e poi, senza lasciare praticamente traccia, scompare per molti giorni in una città dove non c’è non mancano le fotocamere.

Ultima precisazione: c’è chi ritiene che sia stata tenuta prigioniera a lungo e poi un giorno uccisa. Sembra strano che sul suo corpo non vi siano tracce di reazione o di difesa che qualunque essere umano avrebbe avuto se fosse stata tenuta prigioniera. C’è poi chi ipotizza che sia stata drogata. Ma allora dovrebbero esserci tracce del narcotico nel corpo: non ci sono.

C’è chi dice che abbia avuto un malore mentre era con qualcuno e che qualcuno l’abbia messa nei sacchi e l’abbia portata su per la collina. Ipotesi molto inquietante, ma anche questa cozza con la realtà: come trasportiamo un cadavere, in cui il flusso sanguigno si è interrotto, senza lasciare tracce? E come possiamo trasportarlo senza rompere la fragile plastica che lo conteneva? Semplicemente non – ripetiamo non – possiamo.

Ma da allora Gli investigatori non hanno accertato dove sia stata Lillycosì la storia di questa donna di 63 anni si è popolata di migliaia di sconosciuti che, senza conoscerla minimamente, si sono convinti di poter entrare nella sua testa.

Pensano cioè di capire quale fosse lo stato dei suoi rapporti con il marito, o con le amiche, o con un “amico speciale”. Pensano di escludere, in base alla vita sportiva di Lilly, il buio che a volte avvolge le persone che sembrano, superficialmente, più serene. Pensano che una donna, solo perché ha un marito più o meno al suo fianco, non può avere una vita interiore complicata, inesprimibile, irraggiungibile.

Ci sentiamo ripetere che Lilly non avrebbe fatto questo o non avrebbe fatto quello: ma chi oggi può davvero mettersi seriamente al posto di Lilli? Chi può davvero dire di conoscerla a fondo? Da dicembre 2021, quando è scomparsa da casa, ne abbiamo sentite tante, troppe: e questo fiume non ha mai intaccato la sostanza di Lilly, una donna riservata, che non voleva proprio farsi conoscere dagli altri in vita e di al quale fu fatto un pasticcio di parole nella morte.

Se le testimonianze raccolte finora hanno prodotto poco, chissà quali nuove potranno emergere. Per questo motivo la molecola di acido 5-aminosalicilico presente nelle urine potrebbe rappresentare una sorta di bandiera: può dirci che “Lilly è stata qui”, nella casa di una persona affetta dal morbo di Crohn, che ha molte piante, forse parecchi bonsai.

Non possiamo saperlo oggi se e come le indagini proseguiranno (o non proseguiranno). Né quando avremo i risultati delle nuove ricerche sul corpo riesumato di Lilly. Ma ora, invece di ascoltare il disco rotto delle testimonianze di parenti e amici che si odiano, forse è il momento di provare ad ascoltare qualcuno che finora, chissà per quali motivi, non ha mai parlato.

Qualcuno che potrebbe aver prestato la sua casa a Lilly. O qualcuno nella cui casa Lilly è entrata a sua insaputa. Dopo tante parole ci vorrebbe almeno un “fatto”.

Piero Colaprico. Maturità al collegio Morosini, laurea in giurisprudenza a Milano, assunto nel 1985 da Repubblica, nominato inviato speciale nell’89, capo del settore nero e giudiziario nel 2006, capo della redazione nel 2017. Si è dimesso nel ’21, mantenendo varie collaborazioni giornalistiche. Scrittore di gialli e noir, ne ha scritti 15, alcuni tradotti in inglese, francese e rumeno. Il film “The Ruthless” era basato su un suo saggio, “Manager calibro 9”. Scrive anche per il teatro, attualmente è direttore artistico del teatro Gerolamo, storica sala milanese.

 
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