Campione della Lazio, un diario emozionale – .

Faceva caldo a Roma il 12 maggio 1974. Non solo per la temperatura che già al mattino presto raggiungeva i 22 gradi, ma anche per altri motivi. Meno tecnico e più personale. Quelle che implicano passione, sentimento, attesa. Insomma, quei motivi che sono indissolubilmente legati al tifo per una squadra, al sentirsi parte di essa, al viverla come cosa propria, sentimenti condivisi insieme a tanti altri che la pensano allo stesso modo e che portano così avanti una passione ormai tramandata. di padre in figlio.

Per la prima volta nella sua storia, Quel giorno la Lazio aveva la possibilità di vincere lo scudettoun evento nel vero senso della parola, che avrebbe ribaltato le gerarchie del calcio, riportando all’attenzione generale una società gestita in modo familiare da un padre presidente, Umberto Lenzini e guidata da Tommaso Maestrelli, psicologo e allenatore pieno di umanità capace di tirare ha tirato fuori il meglio da ognuno dei suoi giocatori, campioni di grande livello tecnico divisi nella vita ma uniti in campo come un solo uomo grazie a lui.

Una giornata particolare

Ecco perché in città faceva caldo il 12 maggio di cinquant’anni fa. Se avesse battuto il Foggia nella sfida in programma all’Olimpico, la Lazio sarebbe stata “lanciata campione d’Italia” (come si diceva in quei giorni) alla vigilia della fine del campionato.

Non è un caso che il Corriere dello Sport titolasse a cinque colonne: “Per la Lazio il giorno più lungo, per la città la vigilia più dolorosa”.

Vero, tutto vero. La tensione era alta, così come i preparativi. Allora non esistevano le radio privatenemmeno parlando di cellulari, il cellulare era infatti solo il furgone della polizia utilizzato per i raid o per portare gli agenti di polizia sui luoghi delle manifestazioni, ma anche senza i diktat delle radio sportive o i messaggi via WhatsApp pronti a diffondersi in un lampo , il tam tam lanciato dai capi tifoseria si era diffuso ugualmente in tutta Roma.

Lo slogan era “una persona, una bandiera”, in altre parole ogni tifoso che va allo stadio porta con sé uno striscione, magari cucito alla rinfusa da una mamma premurosa e fissato a un manico di scopa o a una canna da pesca, così che lo stadio si “dipinge” con i nostri colori in quello che potrebbe essere il nostro giorno. E così è stato. Non si erano mai visti così tanti striscioni e bandiere contemporaneamente all’Olimpico, uno spettacolo impressionante e agghiacciante come dimostrano le immagini girate quel giorno dalla Rai, unica custode della parola.

Sono immagini che ci raccontano di uno stadio gremito e pieno di passione. I laziali non vollero perdersi quell’appuntamento decisivo e così fecero il tutto esaurito con un numero record di spettatori paganti rimasto imbattuto negli anni.

60.494 biglietti venduti, più 18.315 abbonati, senza contare le migliaia di persone senza biglietto che hanno scavalcato le recinzioni in Curva e nel Tevere, per un totale di oltre 80mila presenti, sono numeri che parlano chiaro e danno un senso di quanto accaduto in occasione di Lazio-Foggia. Non è un caso che i cancelli siano stati aperti eccezionalmente alle 9.30 per permettere alle persone di entrare per tempo e senza problemi, nonostante l’incontro iniziasse alle 16.

Mezz’ora prima dell’inizio delle ostilità sul campo dell’Olimpico, Lenzini fece il giro del campo per salutare i tifosi e per lui fu un trionfo a scena aperta, un’ovazione speciale e meritata, una sorta di aperitivo di quello che sarebbe successo quando le due squadre sono scese in campo.

Alcuni piangevano, altri ridevano, altri saltavano di gioia. Tutti si abbracciarono ed erano felici. Furono momenti indescrivibili che si sarebbero ripetuti senza ritegno e in maniera indescrivibile alla fine della partita, quando ci fu l’invasione festosa e pacifica del campo dopo il fischio finale dell’arbitro Panzino.

Erano le 17.45 del 12 maggio 1974, la Lazio era campione d’Italia, come annunciò Enrico Ameri in collegamento dall’Olimpico ai microfoni di “Tutto il calcio minuto per minuto”.

La festa era iniziata e sarebbe durata tutta la notte, tra caroselli di automobili, cortei in centro, cene e grandi bevute con gli immancabili bagni nelle fontane fino all’alba, in tempo per correre in edicola e prendere le prime copie del il quotidiano sportivo cittadino che raccontò così quello storico evento:

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“Lazio nel sogno – Ha 74 anni di vita come il nostro secolo, solo 2 anni fa era in Serie B: ora grazie ad essa è anche la capitale del calcio italiano”. Si era conclusa la giornata più lunga per la cara vecchia Lazio. Lo scudetto era biancoblù. La Lazio di Maestrelli e Chinaglia è entrata nella storia dalla porta principale ed è entrata nella leggenda come esempio di attaccamento alla maglia e ad una squadra che è stata antesignana del calcio moderno.

Sono passati esattamente cinquant’anni da quell’emozione, ma il cuore biancoceleste batte ancora come quel giorno e la festa torna all’Olimpico con quei campioni di ieri e i figli di chi non c’è più, davanti a settantamila innamorati della Lazio che festeggerà quello scudetto indimenticabile. Uno Scudetto dal sapore antico, quello del calcio a misura d’uomo e non a misura di sponsor, quello di un calcio vissuto e ricordato “di padre in figlio”.

 
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