‘Ndrangheta a Genova. Dal porto al “sistema Toti”. La potenza delle ‘ndrine calabro-liguri – .

(GIOVANNI TIZIAN – editorialdomani.it) – Le grandi navi mercantili attraccavano ai moli grigi. Le pareti di container gialli, blu, rossi, bianchi, ripescati e spostati da una parte all’altra da gru simili a grattacieli. Nell’apparente disordine, regna l’ordine tra i moli del porto di Genova, nella “città vecchia” di Fabrizio De Andrè, con quell’“aria densa, piena di sale, piena di odori”. La striscia di terra stretta tra edifici a ridosso della montagna e del mare è il palcoscenico di affari milionari, gestiti dai proprietari del porto che vivono di concessioni pubbliche e che hanno sedotto i politici con i soldi per mantenerle. Traffico di tangenti. Non l’unico che circola nelle arterie portuali sotto la Lanterna.

Cinque anni fa la Guardia di Finanza sequestrò sessanta sacchi con due tonnellate di cocaina provenienti dalla Colombia. L’allora pubblico ministero aveva detto alla stampa che “il porto di Genova ha preso il posto di quello di Gioia Tauro”. Gioia Tauro, provincia di Reggio Calabria, per un decennio centro preferito della ‘ndrangheta e dei suoi alleati narcos. Ma poi i controlli eccessivi hanno spinto i clan a investire anche ad altre latitudini: Rotterdam, Anversa, Marsiglia, Livorno e, appunto, Genova.

In questa storia di cocaina, dal valore di miliardi di euro, destinata al mercato di tutta Europa, troviamo l’organizzazione criminale che ha fatto della Liguria la sua prestigiosa filiale: la ‘ndrangheta, in particolare la ‘ndrangheta composta da cosche della provincia di Reggio Calabria, da Gioia Tauro a Locri, capitali dei clan che rappresentano i massimi trafficanti di droga, legati ai cartelli sudamericani.

La mafia calabrese ha occupato interi territori della regione, oggi al centro dello scandalo politico che ha travolto il presidente del consiglio ligure, Giovanni Toti. L’indagine della Procura del capoluogo ligure ha confermato un sospetto che circolava da anni: un rapporto incestuoso tra imprenditori e amministratori pubblici.

I primi, come l’armatore Aldo Spinelli, interessati a riscuotere le proroghe delle concessioni dall’Autorità portuale. Questi ultimi affamati di soldi per le loro faraoniche campagne elettorali. Il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, è ancora agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione, così come Spinelli, mentre è in carcere Paolo Emilio Signorini, l’ex capo dell’Autorità portuale. Ma la stessa indagine ha documentato anche la capacità delle cosche di controllare e offrire pacchetti di voto.

DUE FILO DI INDAGINE

L’inchiesta come la conosciamo oggi è la somma di due filoni distinti, entrambi conclusi tra il 2019 e il 2020. Il primo, di natura politico-imprenditoriale, è nato dalla notizia di alcuni finanziamenti ricevuti da Toti da parte di aziende i cui affari pendevano dalle decisioni prese dalla presidenza della Giunta. regione o autorità portuale.

Il secondo è nato alla Spezia e mirava a manifestare il voto di scambio con i clan, con una presenza ingombrante come quella del capo di gabinetto del presidente, Matteo Cozzani. Il risultato di questa saldatura investigativa è quello di aver svelato la punta nascosta dell’iceberg. E cioè il sistema clandestino di accordi, favori e corruzione. Con i capi clan che agiscono come mercanti di voti venduti al miglior offerente.

Un lungo rapporto della Guardia di Finanza, negli atti dell’inchiesta Toti, è dedicato solo ai rapporti tra la politica e gli uomini di mafia, in particolare della mafia siciliana, famiglia Cammarata di Riesi, provincia di Caltanissetta. Ma è scavando un po’ più a fondo in questo terreno fangoso che emerge il profilo dell’organizzazione che governa le dinamiche criminali in Liguria, ha deciso le elezioni e portato allo scioglimento dei consigli comunali inquinati dalle sue ingerenze.

«Cosa Nostra genovese è risultata essere in stretto collegamento anche con altre forme di criminalità organizzata, in particolare con quella calabrese», è scritto in una relazione degli inquirenti che hanno indagato sui voti sporchi offerti alle liste legate a Toti. Torniamo, dunque, alla ‘Ndrangheta.

LA NOSTRA GENOVA

«Se vogliamo il lavoro… qui a Genova… dobbiamo parlare con Cianci… perché qui a volte fanno i lavori a trattativa privata». Cianci è Domenico Cianci, eletto consigliere regionale nella formazione “Cambiamo presidente Toti”: 4.564 preferenze, terzo candidato più votato della lista nella circoscrizione di Genova.

L’oratore, intercettato, era Luigi Mamone. Parole riportate nell’informativa della Guardia di finanza Famiglia Mamone, originaria della Calabria, indicata in decine di segnalazioni come l’anello di congiunzione tra le cosche della piana di Gioia Tauro e l’imprenditoria che conta in Liguria. Il fondatore è stato Luigi Mamone, scomparso nel 2021, a capo di un gruppo societario molto attivo negli appalti pubblici, nelle bonifiche e nell’edilizia.

Relazioni e amicizie portano al vertice delle cosche di ‘ndrangheta che contano: le famiglie Raso-Gullace, nell’élite dell’organizzazione mafiosa. Anche i Mamones, in contatto con i siciliani indagati per scambio di voti con il capo di gabinetto di Toti, hanno avuto contatti diretti (incontri documentati) con Cianci.

Alcuni indagati sostengono che il politico toziano “tirò fuori tanti soldi (…)” e riferendosi ai voti dei clan calabresi commentano: “I calabresi sono molto uniti, più uniti di noi”, cioè i rappresentanti siciliani .

Il riferimento potrebbe essere, ad esempio, a un’altra figura della ‘Ndrangheta genovese, un certo Carmelo Griffo, molto vicino al boss Paolo Nucera di Lavagna. Solo che, come spesso accade in queste storie di politica e mafia, gli eletti credono di poter tradire gli accordi, dimenticando il profilo dei loro interlocutori.

Ma Griffo non ha avuto problemi a stimolare la memoria dello smemorato Cianci, beneficiario di un suo voto: «Sei un pagliaccio, un pagliaccio di merda», disse seccato al consigliere regionale che non aveva rispettato le prescrizioni preliminari. accordi elettorali.

La ‘ndrangheta in Liguria, e in generale nel nord, è così: per lo più silenziosa, ma sempre pronta ad applicare i metodi che l’hanno resa famigerata nel mondo.

SANTA LIGURIA

Da Ventimiglia, Bordighera, a La Spezia fino a Genova, una cosa è certa: le cosche di ‘ndrangheta hanno offerto negli ultimi anni un susseguirsi di boss dai profili più diversi. C’è Domenico Gangemi, il condottiero genovese, ufficialmente fruttivendolo nel quartiere non lontano da Marassi. Gangemi, intercettato dalle cimici, nel lontano 2009, disse al boss dei boss calabresi: “Sembra che la Liguria sia ‘Ndrangheta”. Nel Ponente Ligure, invece, al confine con la Francia, l’identikit del padrino sfuma in quello di un imprenditore che per lungo tempo ha goduto dell’indifferenza anche della magistratura. È il caso di Bordighera, qui la famiglia Pellegrino si occupava di edilizia e movimento terra. Il comune era stato sciolto a causa della mafia, poi il Consiglio di Stato ha annullato il provvedimento. Identica sorte per Ventimiglia, dove Giuseppe Marcianò comandò fino alla morte nel 2017. Sciolta anche Lavagna per infiltrazioni mafiose, provvedimento confermato. E solo pochi giorni fa, nel pieno della bufera giudiziaria su Toti, l’ex parlamentare ed ex sindaco, Gabriella Mondello, è stata condannata per corruzione elettorale. Ancora una volta c’era di mezzo un boss della ‘Ndrangheta. Una costante dove c’è potere e denaro. Anche questo è il “sistema” Liguria.

 
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