made in Italy a rischio. La sfida dell’IA inizia in salita – .

made in Italy a rischio. La sfida dell’IA inizia in salita – .
made in Italy a rischio. La sfida dell’IA inizia in salita – .

Su una cosa il parere è quasi unanime: niente sarà più come prima. L’intelligenza artificiale è destinata a cambiare nel giro di pochi anni la fisionomia dei modi di produrre, creare e vendere. Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nella sua relazione annuale ha parlato di “cambiamenti potenzialmente dirompenti nell’economia mondiale”. Una “distruzione creativa”, per usare l’ossimoro coniato dall’economista Joseph Schumpeter, di una forza mai sperimentata prima. A rischio non è la vita delle singole aziende, ma quella dei modelli economici di interi Paesi. La domanda, quindi, è d’obbligo: l’Italia sarà tra i vincitori o tra i perdenti di questa nuova rivoluzione tecnologica?

«Se non ci muoviamo subito», dice Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano, «il made in Italy rischia di scomparire nel giro di pochi anni». Non è un’opinione qualsiasi. Noci fa parte del Comitato di Coordinamento per l’Intelligenza Artificiale chiamato dal governo a fornire un contributo alla strategia nazionale sull’uso dell’IA. Il documento finale redatto dai “saggi” è stato consegnato da tempo al governo. Fermo in un cassetto per ora. Anche perché, si dice, ci sarebbero richieste di investimenti per molti miliardi pur di non scendere dal treno dell’intelligenza artificiale. «Il punto», spiega Noci, «è che le aziende italiane non hanno la cultura dei dati e quindi molte non hanno un database codificato». La struttura economica del Paese è fatta di piccole e medie imprese che spesso non hanno digitalizzato il proprio “sapere”. Eccellenze dell’arredo che hanno modelli disegnati su carta. Oppure aziende della moda, del tessile e della ceramica. “Il rischio”, dice Noci, “è che i modelli di intelligenza artificiale vengano addestrati su dati americani o francesi”.

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TESI

Un sapere, uno stile, un gusto costruiti in secoli di storia rischiano di essere spazzati via. Una tesi su cui concorda anche Fabrizio Milano D’Aragona, CEO & Co-Founder di Datrix, chiamato a coordinare il tavolo di lavoro sull’Intelligenza Artificiale di Assintel, l’associazione delle imprese ICT. «Le grandi aziende», dice, «sono tutte in movimento e preparate all’avvento dell’AI, le piccole e medie imprese sono oggettivamente in ritardo, non hanno un focus specifico su questo tema». Dobbiamo sbrigarci, correre. Creare la necessaria infrastruttura di intelligenza artificiale. Nel suo rapporto, Panetta ha chiesto “l’ingresso delle aziende europee nello sviluppo di questa tecnologia”.

L’INSEGUIMENTO

Le iniziative congiunte, ha affermato, renderebbero più facile reperire le enormi risorse finanziarie necessarie per competere con i produttori stranieri. «Microsoft. Meta, Google, Amazon investono cifre colossali nelle piattaforme”, spiega Christian Lechner, responsabile della ricerca accademica della Luiss Business School. Competere con i colossi è difficile, soprattutto per un Paese come l’Italia dove il venture capital stenta a decollare. «Negli Stati Uniti», ha ricordato sempre Panetta, «le prime sei aziende per capitalizzazione di borsa, ciascuna con un valore superiore a 1.000 miliardi di dollari, sono state inizialmente finanziate da questi investitori e oggi sono protagoniste globali della rivoluzione digitale». L’Europa, invece, non riesce a tenere il passo.

L’Italia ancora meno. «Francesi e tedeschi», spiega Lechner, «investono cinque o sei volte di più di noi, anche la Spagna spende il doppio». Nel triennio 2021-2023, si legge nel rapporto della Banca d’Italia, il flusso annuo di investimenti ha oscillato tra 500 milioni e un miliardo e mezzo. Manca soprattutto il capitale privato. «I tedeschi aggiungono un euro pubblico per ogni euro versato dal settore privato, gli israeliani addirittura sei», dice Lechner.

In Italia, invece, CDP, che attraverso CDP Venture ha lanciato un fondo da un miliardo a sostegno dell’AI, deve svolgere quasi un ruolo sostitutivo del settore privato. Panetta ha chiesto un maggiore coinvolgimento degli investitori istituzionali. “Se le compagnie di assicurazione e i fondi pensione investessero una quota di patrimonio pari a quella della Francia nei fondi nazionali, gli incassi raddoppierebbero”. Avremmo quindi bisogno di soldi, e tanti.

Ma nonostante tutte le difficoltà, qualcosa si muove anche in Italia. C’è un punto da cui partire. È il super computer pre-esascala di Leonardo. In termini di potenza di calcolo è tra i primi sei al mondo, terzo in termini di capacità di addestramento all’intelligenza artificiale. Può elaborare 250 milioni di miliardi di operazioni al secondo. Quando è nato, a fine 2022, era tra i primi quattro computer per potenza di calcolo. Anche qui l’innovazione corre veloce e servono soldi per stare al passo e non farsi sorpassare. Il supercomputer è gestito dal Cineca, un consorzio interuniversitario senza scopo di lucro composto da 118 enti pubblici, tra cui 2 ministeri e 70 università italiane. L’uso del super computer è gratuito. In tre hanno chiesto di farlo per costruire un Llm, un modello di lingua italiana di grandi dimensioni, alternativo alle macchine addestrate da OpenAi e altri colossi americani. Si tratta delle startup I-Genius e Istella, quest’ultima dell’ex proprietario di Tiscali Renato Soru, e Almawave, la software house francofona che sta sviluppando Velvet, un modello multilingue. Anche la francese Mistral, il progetto europeo più avanzato nel campo dell’intelligenza artificiale generativa, ha addestrato il suo modello con il supercomputer di Leonardo. Ma perché addestrare l’AI in italiano quando ChatGpt è in grado di utilizzare praticamente qualsiasi lingua.

LA FILOSOFIA

«Il filosofo Wittgenstein», ha spiegato recentemente Alessandra Poggiani, direttrice generale del Cineca, «diceva che il linguaggio determina i confini del nostro mondo. Soprattutto in ambiti specifici, come la medicina, avere un assistente virtuale formato sul nostro patrimonio culturale determina il tipo di risposta che potrà darci”. È come dire, va da sé, che l’intelligenza artificiale deve imparare a pensare come gli italiani. Nei modelli americani i “testi” caricati in italiano non superano l’1%. In quelle europee non si va oltre il 3%. Pensi davvero che basti un traduttore, anche ottimo, per rappresentare la cultura italiana all’interno di un modello di intelligenza artificiale? Nei convegni tra tecnici, spesso viene presentata una slide in cui si chiedeva all’Intelligenza Artificiale quale fosse la differenza tra Parmigiano e Parmigiano. La risposta? Nessuno, sono la stessa cosa. Se non fosse che nel primo c’è la conoscenza secolare e la cultura agricola di una parte del Paese, il secondo è un formaggio molto diffuso e poco saporito prodotto soprattutto all’estero e battezzato con un nome che richiama uno dei più famosi Made in Italy Marche. L’intelligenza artificiale è una tecnologia di apprendimento. Risolverà l’errore. Ma è meglio che le aziende italiane inizino ad attrezzarsi per proteggere e sfruttare tutta la propria conoscenza investendo in dati e nuove tecnologie. Ma perché tutto funzioni occorre costruire un “ecosistema” in cui tutti facciano la loro parte: finanza, imprese, politica e università.

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Il Messaggero

 
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