A Roma una retrospettiva di Carla Accardi, protagonista dell’arte del dopoguerra – .

A Roma una retrospettiva di Carla Accardi, protagonista dell’arte del dopoguerra – .
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“La sublime monaca dell’arte / convoglia l’invisibile / sulle tele in rilievo / e con gesti graduati / e non meno eloquenti / di quelli dei profeti / raffigura gli spazi essenziali / dello spettro cromatico; / anime di colore-energia / bandiere della creazione . / La sua mira d’arciere / le fissa sulle superfici, / vacillanti, linee cerebrali; / armonie di astrazione. / Le trasparenze si svelano / e l’artista le illumina, / e talvolta le oscura / per renderle invisibili / al senso profano del realismo”.

Ci voleva un poeta amico delle donne come Valentino Zeichen, rabdomante sensibile ai tesori dell’arte, per descrivere l’essenza dell’opera di Carla Accardi (1924-2014), uno dei protagonisti dell’arte del dopoguerra che per settant’anni seppe innovare e trasformare il linguaggio dell’astrazione contemporanea, con un segno originale destinato a resistere al tempo.

Lo dimostra la magnifica retrospettiva curata da Daniela Lanciani e Paola Bonanni, aperta a Roma al Palazzo delle Esposizioni fino al 9 giugno e fortemente voluta dal presidente Marco Delogu nel centenario della nascita del pittore. Esposte in sette sontuose sale, un centinaio di opere provenienti dall’Archivio Accardi Sanfilippo, dai grandi musei nazionali e internazionali e da una serie di collezionisti privati, permettono di ripercorrere la straordinaria avventura di questa ragazza della buona borghesia trapanese, che destinò niente per la ribalta dell’ arte.

Poco più che ventenne, Carla Accardi, viso piccolo, sorriso smagliante, volontà d’acciaio, lascia la Sicilia per studiare a Firenze. Di lì si trasferì a Roma, entrò in contatto con Gino Severini e con un gruppo di giovani artisti che orbitavano nello studio di Renato Guttuso (Ugo Attardi, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, che sarebbe diventato suo marito, e Giulio Turcato ). All’inizio del 1947, unica donna del gruppo, creò insieme a loro “Forma I, Mensile delle Arti Figurative”, lanciando alla maniera dei futuristi un Manifesto per la nuova arte: “Ci proclamiamo formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non sono inconciliabili”.

Ed è una vera sorpresa scoprire, nella prima sala della mostra, un tratto singolare fin dall’inizio, con l’Autoritratto modellato su quello di Raffaello, e la Natura morta dai volumi cubisti, e la Veduta su un campo da tennis , qui esposta per la prima volta, con il violento contrasto tra il rosso della terra battuta, il verde degli alberi, il blu notte del cielo. Poi arriva l’abbandono del figurativo con la pretesa, però, di associare la funzione decorativa alla pittura, ma in modo rivoluzionario. Urge infatti valorizzare “l’esistenza oggettiva delle cose” e migliorare la vita, anche se poi il riferimento alla realtà scompare nel caleidoscopio di schegge multicolori e forme chiuse che si espandono e si ritraggono”,…un magma plastico che viaggia sempre sul filo del cambiamento”, per citare le parole di Achille Bonito Oliva. Del resto è la stessa Accardi a riconoscere nel continuo mutare delle cose, con i loro contrasti, le loro miserie, le loro gioie e i conflitti, come orizzonte di senso del suo lavoro.

“Il mio scopo è rappresentare l’impulso vitale che c’è nel mondo”, confessa all’americano Hereward Lester Cooke, curatore della mostra romana del 1955, e a Carla Lonzi, critica radicale e femminista con cui condivide una dolorosa militanza. La pittura di Accardi, come quella spazialista, mira ad esprimere le forze elementari del mondo attraverso una sorta di linguaggio simbolico dei segni. È così che all’età di trent’anni supera un periodo di crisi, abbandonando il cavalletto, e inizia a sperimentare la pittura in bianco e nero, iniziando a tracciare segni grafici con la vernice su una tela stesa a terra. Nascono così l’Arciere su bianco, il Labirinto, l’Assedio, opere iconiche che le valsero fama internazionale grazie a Michel Tapié e Pierre Restany (presenti con i loro scritti critici anche nella magnifica antologia che accompagna il catalogo stampato da Quodlibet).

Ma la sperimentazione non si ferma e il nuovo corso, segnato dall’esplosione del colore, interessa segni, simboli e anche materiali, come il “sicofil”, l’acetato trasparente venduto in rotoli con cui Carla Accardi dà il via all’esistenza oggettiva delle cose , rivelando il fondamento della condizione femminile. Ecco la Tenda, esposta nel 1965 a Torino e oggi di proprietà del Musée Georges Pompidou, la Tripla Tenda, esposta nel 1971 a Roma, e i fogli sovrapposti dipinti mediante inversione di colore, che segnano l’abbandono del dipinto e la smaterializzazione del il dipinto, per far coincidere l’opera con uno spazio abitabile, a misura d’uomo. “Una piccola cosa che stava proprio lì” dirà Carla Lonzi. “Una cosa ovvia, nata da un’idea semplice” dirà Accardi, con l’aplomb di un’artista affermata che resta umile e di una donna trapanese che non si prende sul serio. Una bella lezione di libertà, memorabile non solo per l’arte contemporanea.

 
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