“Il mio amico robot”, una favola sulla solitudine – .

Nominato agli Oscar 2024 come miglior film d’animazione, insieme a titoli ben più blasonati come Nimona, Spider-Man: Attraverso il verso del Ragno E Il ragazzo e l’airone, Il mio amico robot si è imposto all’attenzione per il suo modo di raccontare temi importanti e profondi con la sola forza della narrazione e della messa in scena, facendo un uso funzionale dell’animazione.

Il film è basato sull’omonimo fumetto per bambini dell’americana Sara Varon, pubblicato nel 2007 da First Second. Siamo negli anni 80, a New York. In un mondo popolato da animali antropomorfi, un cane vive la sua vita soffrendo una terribile solitudine. Per questo motivo decide di acquistare un robot, con il quale stringe una grande amicizia. Tuttavia, una serie di eventi portano i due a rimanere forzatamente separati per un lungo periodo, in cui dovranno imparare a cercare nuove strade per ritrovare la propria felicità l’uno senza l’altro.

Il titolo italiano Il mio amico robot diminuisce la forza di quella originaria, che è RobotDreamssogni robotici. La dimensione onirica è un fattore particolarmente rilevante: quando i due personaggi si ritrovano soli, distanti l’uno dall’altro, sognano entrambi. Sognano storie diverse, percorsi in cui diventano di nuovo felici. Qui si consuma il desiderio di una ricerca utopica, in cui la felicità è ridotta ad essere una dimensione astratta, intangibile.

In realtà i tentativi del cane e del robot di alleviare la propria solitudine sono vanificati dalla convinzione che l’altro sia l’elemento mancante per raggiungere la felicità, il fattore con cui eliminare il senso di solitudine. Ma la felicità, come scopriranno entrambi, si materializza solo nella forza di superare i traumi, di desiderare un futuro per sé stessi.

Il corpus concettuale di Il mio amico robot consiste in micronarrazioni all’interno di una struttura più ampia. E, forse, è proprio questo il limite più evidente di un film pur sempre pregevole. Perché, soprattutto nel secondo atto, si ha la sensazione che il film arranchi, si trascini un po’ senza un vero senso narrativo. Il film poteva durare meno senza soffrire in termini di coinvolgimento emotivo.

La scelta del regista Pablo Berger ricalca quello realizzato per uno dei suoi film precedenti, Blancanieves, un film girato in bianco e nero, in formato quadrato e completamente muto. In un’evidente voglia di sperimentazione formale, Berger ha invece scelto di raccontare qui la sua storia, rinunciando al 3D e optando per un 2D più classico e senza far dire alcuna parola ai suoi personaggi.

Il mio amico robot resta comunque un film coinvolgente, anche perché i personaggi, pur avendo fattezze animali, sono profondamente umani. Berger ha posto l’accento sui piccoli gesti di intolleranza, di mancanza di empatia, di mancanza di rispetto verso gli altri, per poi aumentare la sensazione di isolamento dei due protagonisti. Solo nella gentilezza troveranno il modo di essere finalmente felici, nonostante tutto.

C’è poi la scelta di ambientare la storia nella New York degli anni ’80, dove il regista ha vissuto per un periodo della sua vita. In più di un’occasione le Torri Gemelle appaiono come simbolo di un passato ormai dimenticato, eco di un mondo ormai dissolto. Ma in questa desolazione, che come in altre fiabe (Pinocchio, Il mago di Oz) è costellato di mali di varia natura, la storia di un cane e di un robot che si sono amati e hanno trovato la forza per essere felici ci insegna che tutto è possibile se gentilezza ed empatia dettano i nostri gesti.

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