Il romanzo di formazione “sbagliato” di Davide Coppo – .

Davide Copponato nel ’86, ha lavorato nella redazione di rivista dello studio, con vari ruoli. Dopo aver pubblicato un saggio in Il gioco scollegato (Einaudi, 2019), ora firma per e/o La parte sbagliatail suo primo romanzoche fa venire in mente un suo articolo del 2021, intitolato Quello che so dell’estrema destra milanese.

Parliamo infatti di un romanzo, in parte autobiografico (“Non del tutto vero, nemmeno del tutto inventato”, sintetizza Coppo, che scrive nei ringraziamenti che “questo è un libro di fantasia, ma le ombre che getta si estendono su un passato reale”), che parte da una domanda: cosa spinge un giovane di buona famigliasenza particolari traumi alle spalle, di cui scegliere la stradaestremismo politico?

Siamo negli anni 2000, non negli anni ’70: Ettoreil protagonista, lasciò la provincia e arrivò in città per iscriversi ad a grande liceo del centrosi ritrova senza punti di riferimento, smarrito, soprattutto umanamente, in un territorio e in una comunità in cui non riesce a trovare riferimenti né amicizie.

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Lì troverai presto in a gruppo neofascistaprima per caso, poi coltivando la propria radicalizzazione, il distacco dalla famiglia e dagli amici, fino ad un finale inevitabile e tragico.

Il libro si presenta come “un romanzo di formazione sbagliatoun climax non tanto – o non solo – di violenzama anche di legami che si stringono, altri che si sfilacciano, e soprattutto della costruzione di aidentità“.

Allo stesso tempo, in modo più universale, il libro parla di disorientamento emotivo con cui ci troviamo a fare i conti durante iladolescenzae racconta un viaggio nell’attrazione che il male sa sempre esercitare. È un libro di fantasia, ma le ombre che proietta si estendono su un passato reale vissuto dall’autore.

dalla parte sbagliata davide coppo

SU ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, ne proponiamo un estratto:

Sul foglio c’era scritto “Europa Nazione” con quei caratteri che alcuni tifosi usano anche allo stadio. Era uno slogan che mi piaceva e insieme ai miei compagni, utilizzando nastro adesivo per delimitare i confini delle lettere e barattoli neri per riempirle, avevo contribuito a scriverlo. Mi piaceva anche la bandiera blu con le stelle gialle disposte in cerchio, mi ricordava la sigla che vedevo in televisione da bambino prima di certe trasmissioni dell’Eurovisione. Ecco il nostro muro di cinta per proteggerci dalla globalizzazione, mi sono detto con una piccola epifania: una grande e antica patria, del resto un’altra cosa che mi ha fatto sentire in bocca, e dietro gli occhi, il dolce sapore dell’infanzia. Un’altra cosa per cui sentivo che era giusto lottare.

Quel giorno a Milano pioveva e l’umidità rendeva più densa l’aria che già da settimane era pesante e puzzolente. Il corteo attraversava tranquillamente il centro, i fumogeni provenienti dalle prime file avevano un forte odore di zolfo che non avevo mai respirato. All’inizio mi hanno fatto tossire, poi ho fatto un respiro profondo e ho sentito qualcosa come un’ebbrezza. Un’altra cosa che ho imparato a riguardo che mi ha confuso e poi mi è piaciuta.

Il coro che abbiamo intonato diceva: «Europa-Nazione-Rivoluzione». Tra le parti del corteo Roberto si muoveva con il megafono in mano per ripetere le parole o lanciare nuove canzoni, lo faceva come un allenatore con i suoi giocatori, con un volto a volte convinto e severo, a volte con un’espressione felice nonostante il capo scoperto, bagnato e freddo. Anche Giulio non stava fermo in un posto fisso, ma andava avanti e indietro, controllava gli striscioni, diceva: “Più in alto!” oppure parlava con qualcuno, giusto due parole o una battuta, qualche secondo per stemperare l’entusiasmo o la tensione prima di staccarsi nuovamente. Quelli grandi, quelli con la faccia brutta o gli occhi pazzi, che parlavano poco e mi facevano sempre paura, stavano ai lati, guardandoci da lontano come se fossimo pecore da tenere a bada e loro erano i cani da pastore. : erano il servizio di sicurezza, mi hanno detto. Nel frattempo le nostre giacche si erano inzuppate d’acqua, leccavo le gocce di pioggia dai primi baffi sottili che mi crescevano sulle labbra. Mi è sembrato che la pioggia rafforzasse il senso di unità. Giulio mi ha offerto una sigaretta, non riuscivo a liberare le mani dallo striscione, allora me l’ha infilata direttamente in bocca e mi ha aiutato ad accenderla riparandomi dal vento con la mano. Abbiamo riso.

C’era una canzone in particolare che ascoltavo molto nei giorni precedenti quella processione e parlava della Rivoluzione ungherese del 1956, era una canzone triste e lugubre che canticchiavo nella mia testa per stare al passo con la processione e non pensare per l’umidità che mi gelava la schiena. Era chiamato: Forza ragazzi di Buda. Nei giorni precedenti l’avevo ascoltato nel lettore CD con le cuffie mentre ero a letto e alcune di quelle volte mi commuovevo fino a piangere, e siccome ho sempre pianto per la minima cosa, da quando ero un bambino, mi commuoveva ogni volta quel momento in cui uno studente ungherese, uno che partecipò alla rivoluzione di libertà contro i sovietici, disse a uno studente del suo stesso partito: «Ragazza, non dire a mia madre / che io morirò questa sera / ma dille che vado in montagna / e che tornerò in primavera”.

Ho rispedito più volte la canzone, sempre su quella frase, perché avevo voglia di piangere di più, volevo svuotarmi dalle lacrime e dalla tristezza fino alla fine, finché non ero scossa dai singhiozzi. Cercavo una purificazione, una pace, che andasse ben oltre quella canzone.

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Dopo averlo ascoltato un numero sufficiente di volte, quando le lacrime smettevano di scendere e il mio respiro si calmava, a volte con un fazzoletto in mano, mi addormentavo pensando all’amore, e poi tornando da Olimpia, da lei occhi verdi e al suo piccolo seno che non vedevo da mesi.

Le mie braccia, che reggevano l’asta dello stendardo, iniziarono a farmi male dai gomiti al collo in pochi minuti. Non sapevo chi fosse il ragazzo accanto a me, quello che reggeva il palo centrale, ma ci guardavamo con espressioni di comprensione per dimostrare solidarietà nello sforzo. Ero felice. Ero – non c’è una parola migliore per dirlo – pieno, pieno, come un frutto perfettamente maturo. Ogni tanto cantavamo di nuovo tutti insieme lo slogan che ritornava: Europa-Nazione-Rivoluzione.

Mi sono girato verso la coda del corteo per ammirarlo ma ho rischiato di compromettere il mio equilibrio e di far crollare l’intero stendardo. Un ragazzo che risaliva a passo spedito il corteo, uno più grosso, mi ha dato un forte colpo sulla schiena con la mano aperta e ha detto: “Metti questo striscione in alto, forza!”. Era del gruppo universitario, l’avevo visto qualche volta alla Federazione anche se non sapevo come si chiamava.

Ho pensato: questa è la prima volta che mi sento così. Pensavo alle braccia degli altri, a chi camminava liberamente davanti e intorno a me, che a volte si alzava per accompagnare i cori, che tendeva a fare il saluto romano, gesto che ancora mi metteva in imbarazzo. Mi spaventava, sembrava violento, quasi volgare. Anche Giulio si lamentava di ciò, passava e parlava da solo o con Roberto e diceva: “Avanti” e poi diceva che non si poteva fare di continuo, che i giornali ci avrebbero ricamato addosso le solite polemiche, che dovevamo non gli ho dato opportunità così facili. . Avremmo dovuto essere più intelligenti.

Ad un certo punto, però, ho modificato la presa del palo: portando la mano sinistra più in alto, e facendo un passo avanti rispetto alla linea degli altri. In questo modo avevo appoggiato l’asta sulla spalla, solo in diagonale, e potevo allungare il braccio destro. È stato un istinto improvviso, l’ho sostenuto per un attimo, con la mano aperta verso l’alto. Presto, andiamo! Come un ombrello che si apre, che rimane sospeso in aria solo per due secondi. Teso. Ho contratto tutti i muscoli affinché il risultato fosse un braccio dritto, perfetto, senza esitazioni e senza mollezze, senza errori. Sono stato illuminato dal potere del proibito. In un attimo ho sperimentato la bellezza di ciò che tutti consideravano sbagliato, ho capito che avrei dovuto abbandonare ogni riluttanza. Mi sono rimessa in ordine, al mio posto. Un brivido mi scosse.

Ho guardato di nuovo il ragazzo accanto a me, è venuta fuori di nuovo quell’espressione di complicità. Abbiamo riso allora.

(continua in biblioteca…)

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