Polizia nei campus. Gli arresti di massa infiammano le proteste pro-Gaza, Biden agisce come un funambolo – .

Polizia nei campus. Gli arresti di massa infiammano le proteste pro-Gaza, Biden agisce come un funambolo – .
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Dalla Columbia University a Yale, da Berkeley al Massachusetts Institute of Technology, le proteste studentesche contro la guerra a Gaza stanno mettendo in subbuglio i campus di tutti gli Stati Uniti, riportando alla ribalta un annoso dilemma: quello di come conciliare il diritto alla libertà la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto altrettanto fondamentale alla non discriminazione. Se fin dall’inizio della guerra le università hanno faticato a trovare un equilibrio dinamico tra queste due esigenze – quella dei manifestanti filo-palestinesi di protestare e quella degli studenti ebrei di non sentirsi discriminati o, peggio ancora, minacciati – negli ultimi giorni la situazione si è letteralmente è esplosa, con alcuni rettori che hanno chiesto l’intervento della polizia antisommossa per sgomberare gli accampamenti dei gruppi studenteschi più radicali. Il risultato sono stati arresti di massa (più di cento alla Columbia, cinquanta a Yale, centocinquanta alla New York University) e una pioggia di reazioni contrastanti, che vanno da quelle che chiedono le dimissioni dei dirigenti universitari (accusati di sopprimere il libero dibattito) a chi minaccia di tagliare i finanziamenti alle università (accusate di tollerare l’antisemitismo). Senza una fine in vista per la guerra di Gaza, e dato il “costante impegno” della Casa Bianca nella difesa di Israele, si profila una fine da incubo per l’anno accademico, pieno di resa dei conti e giochi politici.

La situazione è diventata così esplosiva da costringere il presidente Joe Biden a intervenire su un tema dal quale preferirebbe tenersi lontano, a sei mesi dalle elezioni che – come indicano diversi sondaggi – saranno condizionate anche dalla crisi in Medio Oriente. Lunedì, di fronte alla decisione della Columbia di spostare tutte le lezioni online per contenere i disordini, Biden ha espresso la sua “condanna” per le “proteste antisemite”, sottolineando di aver creato “un programma specifico per affrontare questo problema”. Allo stesso tempo, ha aggiunto che “condanna anche coloro che non capiscono cosa sta succedendo ai palestinesi”. Un atteggiamento cauto che rende il presidente una facile preda sia della sinistra radicale che, ovviamente, dei repubblicani. A guidare il primo fronte è la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, che davanti a Biden ha chiarito il suo pensiero: “è importante ricordare il potere dei giovani nel plasmare il nostro Paese in un giorno come quello di oggi, in cui assistiamo alla leadership del movimento pacifico proteste guidate dagli studenti nei campus della Columbia, Yale, Berkeley e molti altri”. Dall’altra parte ci sono Trump (secondo il quale gli agenti dovrebbero essere inviati “in Columbia per proteggere gli studenti ebrei”, non per vigilarne i processi) e i suoi senatori più fedeli. Come Josh Hawley, che è arrivato al punto di chiedere lo spiegamento della Guardia Nazionale contro quelle che ha definito “manifestazioni scioccanti di antisemitismo”.

Il difficile bilanciamento presidenziale riflette, su scala più ampia, la sensibilità di una questione che sta mettendo a dura prova le università americane. La Columbia University è da giorni una pentola a pressione. La settimana scorsa, più di 100 manifestanti filo-palestinesi, per lo più studenti, sono stati arrestati e sospesi dopo essersi rifiutati di lasciare il prato dove erano accampati. Lunedì sera, in concomitanza con l’inizio della Pasqua ebraica, sono stati registrati altri arresti, quando gli agenti sono stati chiamati a evacuare una “zona liberata” anti-israeliana. Centinaia di insegnanti hanno partecipato ad una protesta contro la decisione del rettore della prestigiosa università di New York, Nemat Minouche Shafik, di chiamare la polizia; la manifestazione di solidarietà è avvenuta mentre gli studenti tornavano a montare le tende nella piazza principale del campus.

Il rettore Shafik non sa più come rispondere alle critiche che le arrivano da entrambe le parti. Mercoledì, proprio mentre gli agenti antisommossa rispondevano al campus, lei era in un’audizione al Congresso richiesta dai repubblicani, che l’accusavano di non aver fatto abbastanza per combattere l’antisemitismo nel campus. Altri due presidenti della Ivy League si sono dimessi mesi fa dopo una controversa udienza al Congresso. È molto probabile che il risultato sarà lo stesso. Intanto è scoppiato l’incendio alla New York University: ieri sera sono state arrestate centocinquanta persone, tra studenti, docenti e persone estranee all’università, secondo la polizia intervenuta su richiesta dei vertici dell’ateneo.

Il punto è che tra le proteste studentesche – che chiedono soprattutto alle università di sostenere il cessate il fuoco a Gaza e di disinvestire dalle aziende legate a Israele – ci sono oggettivamente anche tendenze antisemite, con slogan che inneggiano alla “distruzione di Israele” secondo il formula nota: “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Molti studenti ebrei hanno affermato di sentirsi discriminati e di temere per la propria sicurezza; alcuni stanno pensando di non tornare dalle vacanze pasquali, almeno fino a quando le acque non si saranno calmate. Robert Kraft, proprietario della squadra di football dei New England Patriots e storico donatore dell’università, ha annunciato lo stop ai finanziamenti finché l’università “non garantirà di essere in grado di proteggere i suoi studenti e il personale”. Campbell Brown, dirigente di Meta ed ex conduttore televisivo, è andato oltre: “Vado in Israele, dove i miei due figli saranno più al sicuro e si sentiranno più accolti di quanto non sarebbero oggi nell’Upper West Side”.

Dall’altro lato ci sono le critiche di chi si rifiuta di pensare che l’intervento della polizia antisommossa sia l’unico modo per gestire proteste in gran parte pacifiche. “È davvero scandaloso che l’università permetta alla polizia di arrestare studenti nel nostro stesso campus”, ha detto ad esempio Byul Yoon, studente di giurisprudenza alla New York University, precisando che “l’antisemitismo non è mai accettabile. ciò che rappresentiamo ed è per questo che ci sono così tanti fratelli ebrei che sono qui con noi oggi”.

Secondo i funzionari universitari, le tensioni sono state “sfruttate e amplificate da individui non affiliati alla Columbia che sono entrati nel campus per perseguire i propri scopi”. Non c’è dubbio che la questione vada ben oltre i confini degli americani – e degli stessi Stati Uniti – come dimostra la risonanza che la “repressione” della Colombia sta avendo sui media arabi, sostenitori della causa palestinese, che si affrettano a evidenziare le “origini egiziane” del rettore Shafik. Al-Jazeera, ad esempio, sottolinea che “diversi professori e studenti della Columbia concordano sul fatto che l’uso della polizia […] rappresenta una battuta d’arresto rispetto ai valori di democrazia e libertà di espressione adottati in tutte le università occidentali”. Un professore citato dall’emittente con sede a Doha ha osservato che la comunità docente è rimasta “scioccata dal fatto che i nostri funzionari universitari si sono arresi alle pressioni politiche esercitate dai partiti estremisti di destra”. Il sito Arabi 21, ritenuto vicino alle autorità del Qatar, dà la sua interpretazione dei fatti: “È chiaro che il rettore, eccezionalmente equilibrato, non aveva intenzione di andare incontro alla stessa sorte dei presidenti di Harvard e dell’Università di Pennsylvania, che furono costretti a dimettersi dopo una disastrosa comparizione davanti a una commissione del Congresso che indagava sull’antisemitismo nel campus”.

Se la Columbia è stata finora il punto più critico di questa lacerazione del mondo universitario, il fenomeno si estende ben oltre i confini della Grande Mela. Proteste contro la guerra a Gaza hanno avuto luogo anche in altre università americane, e sono sorti “accampamenti” a Berkeley, al MIT e in altri college in tutto il Paese. A Yale, diverse centinaia di persone hanno protestato, chiedendo che l’università smettesse di finanziare i produttori di armi militari; L’ufficio del rettore ha affermato di aver ripetutamente esortato gli studenti ad andarsene e di averli avvertiti che avrebbero potuto affrontare le forze dell’ordine e azioni disciplinari se non lo avessero fatto. Manifestazioni filo-palestinesi sono state registrate anche alla Brown University, a Princeton e alla Northwestern. E ancora: all’Emerson College, alla Boston University, all’Università della California, a Berkeley, all’Università del North Carolina.

Mancano ancora diverse settimane alla fine dell’anno accademico; poi ci saranno le cerimonie di laurea, soprattutto a giugno. Nessuno sa esattamente come gestire il tempo che resta prima della pausa estiva, tanto più se – come è probabile nel caso di un’offensiva israeliana a Rafah – l’intensità delle proteste dovesse aumentare. L’Università del Michigan ha già iniziato a informare gli studenti sulle regole per le prossime cerimonie di laurea: non sono ammessi striscioni o bandiere. Le proteste sono accettabili, ma in aree designate, lontano dai festaioli in abito da sera. In tutto questo caos una cosa è chiara: gestire un’università non è mai stato così complicato. Lo sa bene il rettore Shafik, che in queste ore ha subito fortissime pressioni. “Il conflitto in Medio Oriente è terribile ed è comprensibile che molti stiano sperimentando un profondo disagio morale”, ha affermato. “Ma non possiamo permettere che sia un gruppo a dettare i termini e tentare di interrompere traguardi importanti come la laurea per promuovere il proprio punto di vista”. Ha assicurato che sta lavorando per trovare soluzioni; c’è la possibilità che il Senato accademico lo preceda, con un voto di sfiducia che potrebbe arrivare già questa settimana.

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