Perché Terni, città operaia e di sinistra, ha un sindaco come Bandecchi? Il libro di Alessandro Portelli – .

Ci sono libri che affascinano, che si leggono d’un fiato, come un romanzo. Ecco com’è”Dal rosso al nero. La svolta giusta di una città operaia” di Alessandro Portelli (Donzelli editore, pagina 269, 28 euro). E ci sono anche libri che, una volta letti, ti scavano dentro, ti fanno domande, ti chiedono approfondimenti. Così è, ancora una volta, “Dal rosso al nero”. Perché il racconto della svolta, il racconto della prima città non del Nord conquistata dalla Lega, costruito con una miriade di interviste, sembra cronaca viva e invece diventa storia.
Quasi una Stalingrado italiana, Terni è sempre stata orgogliosamente operaia e di sinistra. Non c’è stata competizione alle elezioni. Le acciaierie (Acciai speciali Terni, Ast) dominano la città, la occupano, attirano altre imprese. Grande differenza con le altre città umbre, note per la loro bellezza e storia, in continua competizione con la faticosa e inquinata “modernità” di Terni.

La proposta dell’azienda, 80mila euro per dimettersi

Nel 2014 qualcosa si è rotto. Dopo uno sciopero lunghissimo, oltre un mese, con il sostegno di tutta la città, dopo gli attentati della polizia a Roma, con i dirigenti e il segretario della CGIL Landini feriti alla testa e diversi operai finiti in ospedale, la direzione dell’Ast factory una proposta senza precedenti. TFR 80.000 euro lordi (60.000 netti) a chi si dimette spontaneamente.
In realtà per l’Ast si tratta di una furba operazione a costo zero, le risorse utilizzate non sono altro che il risparmio prodotto in bilancio da quei 35 giorni di sciopero. Ma per molti lavoratori è stata l’apertura inaspettata di una porta, la possibilità di sognare un’altra vita. Passato l’orgoglio del lavoratore, il sentirsi all’avanguardia e con un ruolo in azienda e nella vita, ecco un gruzzolo con cui invertire il destino.

Il declino di un’identità

Tanto che hanno risposto molti più lavoratori di quanti l’azienda avrebbe voluto mandare via. C’era la fila davanti agli uffici dove venivano firmate le dimissioni. Ma l’accordo riguardava solo i lavoratori interni, non quelli delle ditte appaltatrici, magari con contratto a tempo determinato. Che facevano lo stesso lavoro, ma con meno garanzie, meno sicurezze e salari più bassi dei dipendenti diretti, che venivano licenziati più facilmente, e che quindi aumentavano di numero in fabbrica insieme agli infortuni sul lavoro.
Quaranta anni fa la questione era se “liberarsi dal lavoro o liberarsi dal lavoro”. Una delle risposte possibili era quella di chi voleva liberare il lavoro dal profitto, e questo sarebbe già stato un bel passo avanti. Qui, invece, la scelta è stata quella di liberarsi del lavoro,
Non si tratta solo, come dice un lavoratore, di “lavorare per vivere” invece di “vivere per lavorare”. Quella fila di dimissioni racconta il declino di un sogno, di un’identità. La stessa crisi d’identità che attanaglia Terni che non ha altro che quella di città dell’acciaio, degli altiforni e dell’industria pesante.
Una borghesia esiste certamente, ma il suo peso culturale è ridicolo e separata dal mondo del lavoro, che è sentimentalmente povero.
Chi ha provato a cambiare vita, magari cercando l’Eden a Cuba, spesso ha fallito, le sirene del mercato e del successo sono sfuggenti e ingannevoli. Ciò che è cambiato è il sentimento politico. Poiché a sinistra non c’erano banche, gli operai e gli ex operai si sono rivolti a destra. La sinistra semplicemente non c’è, non dà presenza né risposte. Le forti proteste del 2014 al comizio di Susanna Camusso, segretaria della CGIL, sono state un primo avvertimento.

“Perché votare per il Partito Democratico?”

Del resto, nel Manifesto dei valori del Partito Democratico “la parola classe ricorre due volte, sempre accompagnata dall’aggettivo leader; operai, fabbrica, sciopero, sindacato non compaiono”, rileva Alessandro Portelli. Renzi, dice Massimiliano Catini, operaio e dirigente Fiom, “ha tolto l’articolo 18, ha creato il Jobs Act, ha liberalizzato la cassa integrazione. La domanda è: perché un lavoratore dovrebbe votare per il Pd?”. E Giulio Ratini, operaio imprenditore dell’Ast: «Quello che mi dispiace e che sicuramente ha segnato una svolta politica della classe operaia verso destra è che sia stato un governo di centrosinistra a toglierci i diritti».
Non è risentimento, non è solo protesta. È mancanza di speranza, è confusione di fronte a un Partito Democratico di cacicchi e capos, così autoreferenziale che non si preoccupa del popolo. Prima il voto di protesta per il Movimento Cinque Stelle, poi il boom della Lega, infine il successo di Fratelli d’Italia. Se oggi il sindaco è il singolare Stefano Bandecchi, violento berlusconiano ma molto più brusco e contraddittorio, è solo perché Lega e Fdi si sono suicidate presentandosi separate e in competizione tra loro.

La seduzione

Impressionante la testimonianza di Anna Margaritelli, il nonno sindaco socialista, padre operaio, che gestisce un distributore di benzina con sbarra. Sicuramente il trauma di una rapina notturna. Ma non basta, anche se ammette: “Non ho fede. Se penso che qualcosa non va, me ne vado”. Le piace Salvini, si presenta con la Lega; ma poi lo scontro con i leader locali l’ha disillusa. L’incontro nel suo bar con Giorgia Meloni cambia tutto: il suo leader le chiede di andare in bagno e poi lei prende un caffè. “Abbiamo iniziato a parlare… stavo parlando con una persona, con una donna. Abbiamo parlato come due donne dei problemi dell’economia, del lavoro, ecc…. E mi piaceva molto perché era una persona alla mia portata, una persona che comunque si avvicinava a me che non conoscevo nessuno… E poi mi ha detto ti vengo a trovare. Mi ha dato anche il suo numero di telefono.”
Non sono nessuno, mi ha fatto sentire qualcuno. Ed ecco la fede: «Lei è vera, è del popolo. Adesso posso dire che nutro grande stima per questa donna e se mi avvicino a Fratelli d’Italia è perché credo in lei. Credo in lei.

Un grande vuoto politico

Una testimonianza che mostra un agghiacciante vuoto politico. Da questa parte due leader che si abbassano verso il popolo, dall’altra niente. Un vuoto che va colmato di significati e di valori, se è vero che Terni è il “laboratorio d’Italia”. Una responsabilità che tutti abbiamo, ciascuno nel suo luogo di vita, nel suo campo di impegno.
Perché qualcosa c’è, deve esserci, a costo di ricostruirlo pezzo per pezzo. Un’identità comune, un futuro comune – forse non nelle mani del sindaco Bandecchi che vuole spaccare i denti agli avversari e scopare qualunque donna gli capiti a tiro – perché non si può pensare che il lavoro sia residuo, nell’era dell’intelligenza artificiale . Altro che residuo, compresso invece nei suoi diritti. Le classi, per quanto cambiate, esistono ancora, così come le disuguaglianze. Un futuro che li metta da parte è utile solo alle classi dirigenti e, sì, anche alle classi dirigenti.
Quindi questo libro dovrebbe essere letto anche da chi non ha mai messo piede a Terni. Perché le domande che riesce a sollevare sono potenti. Dove sono i giovani che, come nel resto d’Italia, non sono affatto tutti depoliticizzati ma certamente non ascoltati e picchiati? Nelle realtà che ancora resistono, quella sperimentazione, quello studio. In difesa dell’ambiente e della qualità della vita. Nel sogno di un lavoro che sia identità e orgoglio, non oppressione e pugno di ferro, come cantavano gli operai della Centurini, azienda tessile di Terni: “Mattino e sera, tic tac, fino a sabato bisogna cominciare”. Un lavoro diverso è possibile, una politica diversa è possibile. Sta a noi costruirlo.

 
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