Intelligenze artificiali, simulacri biologici e sconosciuti digitali alla Biennale di Venezia – .

Intelligenze artificiali, simulacri biologici e sconosciuti digitali alla Biennale di Venezia – .
Intelligenze artificiali, simulacri biologici e sconosciuti digitali alla Biennale di Venezia – .

Questa volta l’umano è lo straniero. Accade a Punta della Dogana, Venezia, negli spazi della Fondazione Pinault. Osservando il paguro in un acquario che vive come una conchiglia in una copia della “Musa dormiente” di Constantin Brancusi, il pensiero va a Phleba la fenicia, il marinaio protagonista di “Morte sull’acqua” di TS Eliot, “che ha dimenticato il grido dei gabbiani e la risacca del mare profondo e i profitti e le perdite” e le cui ossa vengono squarciate in sussurri dalle correnti marine. La stanza dell’acquario, una sorta di gabinetto delle curiosità bio-tecno-artistico, è parte del viaggio immersivo realizzato dall’artista francese Pierre Huyghe nelle stanze riallestite nel 2007 da Tadao Ando: un itinerario di confine verso ipotesi di mondi in cui la nostra civiltà è esploso, imploso o degradato allo stadio di un’ombra inconscia.
“Liminal” è il nome dell’opera principale che dà il titolo alla mostra (fino al 24 novembre): un corpo femminile fluttuante, proiettato su una membrana in un ambiente oscurato, un corpo vuoto – un’ombra o una macchia scura ha inghiottito molto del viso. Un simulacro che sembra essere abitato da un’Intelligenza Artificiale.
Sono proprio le IA le protagoniste della mostra, siano esse le maschere dorate dotate di recettori che reagiscono agli stimoli esterni, compresi i visitatori della mostra, inventando una sorta di neolingua nei sussurri elettronici, portati in giro e in giro volti degli interpreti (muti per contratto), una sorta di nuove entità simbiotiche chiamate idiomi; o il robot del film “Camata”, che setaccia tra ronzii e tenta un rituale di sepoltura non molto riuscito su uno scheletro umano calcificato al sole dell’aridissimo deserto sudamericano di Atacama. Un’intelligenza artificiale riedita continuamente il film, sempre diverso. Siamo nei pressi della “Terra desolata” di Eliot, circondato dai suoi “uomini vuoti”, soppiantati però da altre intelligenze: un totem luminoso, un servitore che sembra respirare dietro un muro trasparente; gli esseri umani sono ridotti a resti biologici, ad autori di arte muta, a veicoli come idiomi, a simulacri. L’ispirazione dichiarata di Huyghe è anche Samuel Beckett, la rappresentazione parte dal grado zero, l’AI potrebbe essere quella, lo straniero digitale.
Il liminale è un fenomeno che si colloca al confine della percezione, una frontiera labile e in movimento. “Liminale è uno stato transitorio, dal quale può emergere ciò che non è stato nemmeno pensato”, spiega l’artista francese. Forse una coincidenza intenzionale, è lo stesso paradosso che si trovano ad affrontare gli “ingegneri AI”, gli ingegneri cibernetici che progettano, sviluppano e “addestrano” le Intelligenze Artificiali quando arrivano a risultati in modi misteriosi ai propri formatori. Chi si trova su una frontiera è straniero per definizione. Così l’opera-mostra di Huyghe sembra dialogare a distanza fisica ravvicinata, eppure da un altro Universo, con la 60esima Biennale d’Arte curata dal brasiliano Adriano Pedrosa all’Arsenale e ai Giardini dal titolo “Stranieri ovunque” (fino al 24 novembre). Qui l’accento è posto sull’umano, sul troppo umano, sull’umano emarginato e colonizzato da altri umani, sfruttato, cancellato e in cerca di voce e redenzione. Popolazioni indigene, pittori queer, memorie di schiavi ed emarginati.
Semplificando, potremmo dire che a Venezia i nativi sono in competizione con le Intelligenze Artificiali. Il punto è che, almeno nella competizione artistica, i primi rischiano di perdere. Ma vediamo nel dettaglio. A fare da metaforico traghettatore tra le due mostre-visioni, all’ingresso delle Corderie dell’Arsenale, è l’astronauta migrante dell’anglo-nigeriano Yinka Shonibare con il suo abito sgargiante e una rete carica di valigie in spalla, uno dei poche opere che nella crudele primavera veneziana suscitano sorrisi oltre ogni lode. Poi si rimane intrappolati nella banalità ben intenzionata della grande installazione del collettivo Mataaho, composto da donne di discendenza Maori provenienti dalla Nuova Zelanda, vincitore del Leone d’Oro, fatta di cinghie da imballaggio e che richiama un’atmosfera di non-luogo come il 21° secolo.
Fa eco, visivamente e letteralmente, all’altra estremità dell’Arsenale, la foresta di canne innocenti trasformate in organo da Massimo Bartolini nel Padiglione Italia, che hanno attirato fulmini e parafulmini di difesa di critici e addetti ai lavori, schierati su lati opposti, ma che non fanno il loro dovere di canne d’organo: forano, invece di far vibrare lo spirito. Ci muoviamo tra i corpi transessuali e transumani di Agnes Questionmark verso il panorama globale di artisti folk cileni senza nome, dai suggestivi ritratti femminili di gruppo di Giulia Andreani, nel Padiglione Centrale dei Giardini, a una yurta nella steppa anatolica. Una splendida cornice per un bazar planetario, ma la luce dell’arte raramente si accende: la costruzione della mostra è strettamente controllata dal politicamente corretto che la porta a spirale su se stessa.
A differenza del principio di indeterminazione – ripreso da Heisenberg – che fa da filo conduttore nei mondi possibili di Huyghe, Arsenale e Giardini appaiono così determinati da crollare per una caduta di tensione. Ci sono eccezioni che brillano: la scultura composta da LED e lastre di alluminio di WangShui, artista americano non binario che gioca sul continuo spostamento tra identità reali e fittizie, luce e materia, Intelligenza artificiale e biologica; le foreste dipinte di Rember Yahuarcani, della nazione Uitoto nell’Amazzonia peruviana: danzano nei colori e ricordano le giungle oniriche di un grande pittore autodidatta europeo della seconda metà del XIX secolo, Henri Rosseau, e “Il doganiere ”, solo in quelli di Yahuarcani svettano le voci delle piante e degli animali come fumetti serpentini verso l’alto, un canto indigeno di protesta.
Parole, sussurri, grida. Come i nomi delle genealogie aborigene (o meglio, “Prime Nazioni”) e britanniche, disposti dall’artista Archie Moore in una costellazione sopra pile di cause giudiziarie bagnate dall’acqua di una vasca nel padiglione australiano. Intelligente, ma fredda, vinse il Leone d’Oro alla partecipazione nazionale. Più forti e ribelli sono le sculture del collettivo congolese CATPC, ospitato nel padiglione olandese: lavoratori delle piantagioni che attraverso l’arte vogliono riappropriarsi del loro passato e dell’anima delle foreste mangiate dalle monocolture delle multinazionali. Più sottile il contrappunto tra tessuti e dipinti di Eduardo Cardozo nel padiglione dell’Uruguay, che da Sud a Nord ricorda il “Paradiso” di Tintoretto con il suo mosaico di stracci.
Al di là dei padiglioni, tra rive, strade e canali, ecco i fortini hi-tech, come quello allestito nei pressi dei Giardini dall’artista Josefa Ntjam, nata a Metz, in Francia, e che si definisce afrofuturista: unisce specie marine che si sono evolute digitalmente, statuette africane, cosmogonia Dogon e intelligenza artificiale. O come il gruppo della Riforma Digitale che scelse come sede la Scoletta dell’arte del Tiraoro e Battioro, nel Settecento sede della corporazione artigiana che produceva filo e foglia d’oro, oggi avamposto di una piattaforma interattiva. Sì, sulla laguna si chiamano gli opposti: i mondi indeterminati e mutevoli di Pierre Huyghe rivelano dietro la spontaneità dell’intelligenza artificiale una direzione ben manovrata dell’autore umano.
A Palazzo Franchetti l’artista pakistano Osman Yousefzada in “Welcome! Un Palazzo per gli immigrati” (fino al 7 ottobre) ha trasformato le stanze patrizie di una residenza sul Canal Grande in un’alcova di ricordi per i migranti con tocchi fiabeschi come le trecce che terminano a zampe di uccello e che rimandano a qualche canale di la distanza dagli animali reinventata in chiave surrealista dai celebri Claude e Francois-Xavier Lalanne a Palazzo Rota Ivancich (“Planete Lalanne” fino al 3 novembre). Così due dei temi epocali, come la rivoluzione dell’IA e i flussi migratori, si ritrovano fianco a fianco nella città multiculturale già nel Medioevo e all’avanguardia della scienza. Si toccano, si sfiorano, a volte fanno scintille.
“Può essere rischioso raggruppare artisti di culture diverse sotto l’etichetta di arte indigena”, ragiona Shiva Lynn Burgos, artista e curatrice americana, fondatrice del progetto Mariwai, un progetto di collaborazione artistica con il popolo Kwoma della Papua Nuova Guinea. “Sebbene la Biennale di Pedrosa sia una pietra miliare, stiamo lavorando per presentare un padiglione PNG per l’evento del 2026 non come vittima della colonizzazione, ma come concorrente artistico ad armi pari, pur con le proprie specificità, ad esempio l’elemento spirituale che in l’opera finale va oltre i fini meramente estetici”.
A Venezia (che si arricchisce di nuove collezioni, quella della nuova Fondazione Berggruen in due sedi e di un parco di sculture nella villa Furstenberg a Mestre finanziato da Banca Ifis) l’indagine artistica, scientifica e sociale gioca su un campo comune, anche se non ancora non definita, come è successo alla Serpentine Gallery di Londra, dove ha recentemente esposto Refik Anadol, il controverso “allucinatore” dell’intelligenza artificiale, e come sarà allo Yokoama Art Summit del 2025, in Giappone, dove Philippe Parreno è stato nominato direttore e che a novembre utilizzerà l’AI a Monaco di Baviera come motore di un’esposizione multimediale e multisensoriale che renderà “vivi” gli spazi della Haus der Kunst.
Alla fine degli sguardi l’enigma è estetico, simbolico, come all’inizio dell’umanità: le IA apriranno altri modi di vedere, forse negli stessi miti ancestrali, compresi i frammenti trascurati delle tribù incontattate? O sarà ancora l’umano al timone, come Fleba scomparsa di Eliot, con la faccia rivolta nella direzione del vento ma che può annegare in una tempesta? La risposta, forse, è proprio nella città lagunare in altre due mostre, eventi collaterali alla Biennale: la personale di Berlinde de Bruyckere “City of Refuge III” nella chiesa e abbazia di San Giorgio Maggiore di Andrea Palladio, dove arcangeli di metallo e cera, avvolti in mantelli di pelle bovina, si ritrovano davanti a specchi che sembrano cercare il riflesso di cieli caduti. L’arte, che il belga de Bruyckere considera l’ultimo rifugio, è in pericolo? A Palazzo Contarini Polignac, sul Canal Grande, la Fondazione Pinchuk porta in scena “Dall’Ucraina: Dare to dream” (Dall’Ucraina: osare da sognare, fino al 1° agosto). L’organo con canne fatte di bombe russe fatto esplodere da Zhanna Kadyrova suona come un brivido e allo stesso tempo una speranza e la tecnologia umana della bellezza è anche il recupero di strumenti di morte, avvertimento e liberazione; un film di David Claerbout ci porta al rallentatore nell’esplosione che distrugge una casa. Uno dei lavori più minimalisti è quello dell’indiano Shilpa Gupta, in cui due tavole vecchio stile, con le lettere ribaltabili, dialogano tra loro, con tanto di errori e timidi tentativi di annullare la solitudine. Ci si chiede se sia ChatGPT a parlare con il suo fratello algoritmico. No: il dialogo poetico è stato scritto da Gupta, avanti e indietro, errori e incertezze. Senza suggerimenti o allucinazioni digitali. Indica un percorso tortuoso per riscoprire il mondo e l’arte, ma è certamente un percorso, una rotta verso il “sea change”, la trasformazione marina shakespeariana che sembra aspettarci nel prossimo futuro.

Nella foto, una video scultura dell’artista americano WangShui realizzata con LED, all’Arsenale di Venezia, nella mostra “Stranieri Ovunque” di Adriano Pedrosa

 
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