“Più siamo e più sembriamo belli, Napoli ce lo insegna” – .

“Più siamo e più sembriamo belli, Napoli ce lo insegna” – .
“Più siamo e più sembriamo belli, Napoli ce lo insegna” – .

Ora che tutti si dirigono a Napoli per partecipare al Pride di domani, il ruolo di madrina di Malika Ayane diventa ancora più centrale.

Ely Schlein, “Giuseppi” Conte e Vincenzo De Luca: difficile vederli insieme. Per il lgbtq+ pride day sembra che si farà.
«Miracolo napoletano? Oppure, come dici tu? Chi è uguale e chi è la più bella? Io però ci sono, e lo sono da molto tempo: considero un privilegio essere scelto per dare una mano, una voce, nella lotta per i diritti civili. In qualche modo significa che sono considerato affidabile: è un bel complimento, mi fa piacere saperlo”.

Non ti consideri affidabile?
“Mi butto nelle cose, ma un conto è fare musica, esprimere le proprie idee, un altro è ritrovarsi a essere portavoce di una comunità. Mi sento adulta in questo ruolo, si vede che sto davvero crescendo, salutate la piccola Malika”.

Nel frattempo, in Italia e altrove, si moltiplicano i rigurgiti omofobi, i tentativi di negare o abolire diritti che davamo per scontati o che finalmente sembravano alla nostra portata. È questo il mondo «Sottosopra» di cui canti nel tuo ultimo singolo?
«No, quella canzone è un invito a ridimensionare il modo di guardare certe cose: meglio concentrarsi su quelle importanti. Altrimenti rischiamo di rimanere senza ossigeno, senza forze, senza voce”.

Per un cantante sarebbe un vero paradosso: puoi esporti così tanto da non riuscire più a dire nulla?
“Non lo so. Dico quello che penso, vengo a Napoli per fare da amplificatore a una battaglia che ritengo sacrosanta, per parlare anche a nome di chi ancora non riesce a rivendicare la propria identità. Cerco di metterci dentro la mia nuova serenità, il tentativo di vivere con più leggerezza, la consapevolezza che non tutto è molto importante, che le cose che meritano attenzione sono quelle più importanti”.

Tutto il resto è noioso, e non ho detto gioia?
«Anche: tutto il resto passa, ciò che è veramente importante resta, ci plasma o ci deforma o ci deforma, ma lascia davvero una traccia. Cerco di applicare la filosofia della decrescita felice.”

Serge Latouche docet?
“SÌ. Non ho voglia di far uscire una canzone ogni tre mesi, non sono Gandhi, sono inquieto, ma preferisco stare sei mesi in teatro: se proprio devo ragionare in termini numerici, preferisco 1.000 persone in platea ogni sera per un numero X di visualizzazioni, streaming, azioni virtuali in cui io e chi mi ascolta non ci incontreremo mai. Mi piace stare con loro, rivolgermi a loro dal palco, ma poi ho bisogno di stare da solo, di abbandonarmi».

Qual è lo scopo di tutto questo?
«Siate voi stessi, siate puliti con gli altri, fate rumore quando serve come al Pride, state zitti quando serve. C’è chi vuole essere primo in classifica, ed è disposto a fare cose che io non amo, preferisco guardare ai miei 15 anni di carriera, pensando che d’inverno tornerò a teatro, anche a Napoli: il 3 dicembre sarò all’Augusteo».

Intanto hai trovato il tempo per un libro di racconti e, approfittando del viaggio a Napoli, anche per un incontro con i detenuti di Poggioreale.
«Per ultima cosa torniamo al discorso del ruolo pubblico, del voler mettere a disposizione degli altri le proprie esperienze e la propria visibilità. Ansia da felicità è, invece, l’approdo ad un’altra forma di espressione. Più volte mi è stato chiesto di scrivere qualcosa, ma non mi è venuta, pensavo di non esserne capace. Durante le repliche del musical “Cats” sono nate due storie, a Rizzoli sono piaciute, hanno compiuto 15 anni, mi hanno detto che valeva la pena pubblicarle e le ho ascoltate”.

Differenza tra canzoni e storie?
“Sono entrambe forme di comunicazione brevi, ma sulla carta puoi usare molte più parole, descrivere il colore degli occhi o il tramonto. Quando canti devi mettere tutto in una sola parola: non so se è più facile o più difficile.”

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La mattina

 
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