Pur schierando la squadra teoricamente migliore, i giocatori più freschi e utilizzando il sistema di gioco che conosce meglio, Luciano Spalletti non è riuscito a salvare l’Italia da uno dei naufragi più disastrosi della storia recente del nostro calcio.
La Svizzera non è la Corea del Nord (Mondiali del 1966) o la Corea del Sud (Mondiali del 2002) che ci hanno eliminato agli ottavi, come è successo ieri, ma rappresenta il segnale prepotente che l’orologio dell’Europa sta per suonare una nuova ora e noi siamo terribilmente in ritardo.
Il dibattito sembra polarizzato tra le responsabilità dell’allenatore e l’inadeguatezza dei giocatori: poco bravi tecnicamente, per nulla brillanti fisicamente, totalmente deboli a livello agonistico. Il fatto che non ci sia niente di meglio non assolve nessuno dalla colpa: sporadiche vittorie (l’Europeo di tre anni fa) o qualche exploit a livello giovanile hanno sanato una situazione di grave deficit sportivo.
Il movimento, nel suo insieme, è sfilacciato, la burocrazia rallenta il progresso, alcune scelte – tra cui quella di Spalletti – sono dettate dalla contingenza e non dalla pianificazione.
Se Mancini aveva vinto il suo Europeo con molta fortuna (e, comunque, un’idea di gioco perseguita), Spalletti è uscito con pieno demerito subito dopo la casuale qualificazione alla fase a gironi. La squadra vale poco, ma lui ha fatto ben poco per migliorarla.
Non c’è tempo per lavorare in Nazionale, il campionato non è molto competitivo, ma aver vinto una partita su quattro, averne pareggiata un’altra per grazia ricevuta ed essere usciti surclassati dalla Spagna e dominati dalla Svizzera è sconfortante sia per chi lo considero un ottimo allenatore (nonostante le critiche, chi scrive è tra queste), e per chi lo detesta (d’ora in poi i tre quarti degli italiani).
Non andrà via (gravina lo confermerà), ma dovrebbe pensarci. Perché questo è un fallimento.