The Bon Jovi Story, la recensione della serie doc Bon Jovi – .

The Bon Jovi Story, la recensione della serie doc Bon Jovi – .
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Jon Bon Jovi è un nerd, un perfezionista, qualcuno che non riesce a stare fermo anche se lo vorrebbe, sempre in controllo, sempre in procinto di pianificare una nuova fase della sua vita, della sua carriera.

Potresti indovinarlo scorrendo i numeri una carriera costruita e cementata da tournée mondiali di centinaia e centinaia di date. Nei decenni in cui si dedicò a costruire il suo successo, però, il frontman della band Bon Jovi ebbe sempre una nemesi, di cui parla pochissimo nel suo documentario: critica. I Bon Jovi non sono mai stati presi troppo sul serio. O per l’attrattiva dei primi anni pelosi, o per il suono che li collocava costantemente sul lato commerciale di generi come rock e metal, o per il vasto e fedele seguito di fan. La popolarità come nemica della qualità.

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C’è poco spazio per i rimpianti nel documentario Bon Jovi

Invece, dei quattro episodi da cinquanta e passa minuti che compongono questa docuserie, ne contengono appena una decina l’ammissione più o meno diretta di quanto pesi questa mancata considerazione ad una band che ha sempre preso le cose sul serio, lavorando duro dietro le quinte per raggiungere risultati straordinari. Forse non è un caso allora che il primo momento di relax dopo la tempesta sia una sorta di rettifica a tanti anni di snobismo.

Con molti anni di ritardo il gruppo riceve un invito alla Rock Hall of Fame. Anche in quell’occasione Bon Jovi si concede una sola stoccata fugace. Dopotutto, lo è l’ultima possibilità di vedere riunita la formazione originale, insieme ad Alec John Such (morto nel 2022) e Richie Sambora, chitarrista, secondo cantante e coautore di molti dei grandi successi della band. Sambora ha lasciato la band nel 2013 in circostanze difficili, ma è sul palco per ritirare il premio. Ovviamente Bon Jovi non può saperlo, ma l’abbraccio rilassante tra i membri della band tutti riuniti sul palco sa di un’occasione non sprecata.

Il fatto che Sia Such che Sambora nel documentario dicono molto sul perché Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story funziona. Il regista e produttore Gotham Chopra, abituato a realizzare documentari sulle grandi star dello sport alle prese con la fine della carriera, ha la fortuna più grande per qualcuno nella sua posizione: essere presente, con la telecamera accesa, quando accade qualcosa di veramente importante. Doveva essere un “semplice” documentario per raccontare il 40° anniversario della band e il loro ritorno sulle scene. Bon Jovi dei presenti che parla del lavoro per tornare sul palco e festeggiare l’anniversario al top della condizione, mentre il documentario ricostruisce l’intera storia del gruppo.

Grazie, Goodnight funziona perché Bon Jovi non cerca di controllarlo

Accade però che la condizione non sussista, Bon Jovi ha un problema di voce e, per la prima volta nella sua carriera, contempla la possibilità del ritiro. Qui mostra di che pasta è fatto, perché non allontana Chopra, non nasconde debolezza e dolore, ma lo porta dritto in sala operatoria, per un intervento chirurgico alle corde vocali che potrebbe aiutarlo o porre fine alla sua carriera. La risposta a come è successo non è nel documento, perché è ancora una domanda aperta. La domanda a cui Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story risponde molto bene è Che tipo di artista e di uomo potrebbe essere chi canta inni iperpositivi come “It’s my Life” nella seconda giovinezza del suo gruppo, si sposa poco più che ventenne all’apice della sua carriera ed evita quasi tutte le stravaganze da rock star, fa lunghi viaggi in macchina con il suo “padrino musicale” Bruce Springsteen, riflette sulla mortalità e pianifica tre settimane delle prove prima di tornare in tournée.

Bon Jovi è ossessionato dall’eredità musicale del suo gruppo, l’argomento di cui si parla di più nel documentario. Si intuiscono tutti i difetti nascosti dalle qualità descritte: perfezionista, maniaco del controllo, determinato ad assumersi la responsabilità e a fare da manager e genitore agli altri membri del gruppo ma pronto a rivendicare la sua leadership nei momenti cruciali. Bon Jovi mette la band e la musica al primo posto, sempre. Sambora no: distruttivo e tagliente, scandisce l’intero documentario con le poche verità scomode che contiene. Il fatto che Bon Jovi lo abbia voluto lì per raccontare la sua versione dei fatti la dice lunga rapporto complesso ma non privo di rispetto reciproco tra i due.

Il drammatico addio – improvviso e velenoso – di Sambora al gruppo alla vigilia del tour 2013, la necessità di Bon Jovi di evolversi per sopravvivere sono i passaggi migliori di un documentario impegnativo in termini di durata, maabbastanza sincero e avvincente da meritare una visione oltre il pubblico dei fan della band. Certo, Bon Jovi non è sul banco degli imputati, ma ciò che manca è raccontare i suoi punti di stress. Si dice molto poco del suo matrimonio e del rapporto tra le mogli dei membri della band e il frontman. Emblematico è il fatto che il figlio, oggi tour manager della band paterna, parli di papà Jon solo in termini lavorativi, non esprimendo mai commenti sul fatto che sia suo padre.

Emblematico il silenzio di uno dei figli di una band che trascorse gran parte degli anni ’80 in tournée o in studio di registrazione. I Bon Jovi erano sul palco e facevano la storia, portando il rock americano nella Russia comunista, mentre i bambini nascevano e crescevano in casa. La risposta al prezzo pagato per queste scelte, in definitiva, è contenuta in Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story. L’eredità musicale della band viene prima di tutto e non importa quanto la musica e la composizione della band cambino nel tempo. Finché sei in grado di stare su un palco e difendere e vivere quella eredità, lo fai.

 
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