“Sedia con scocca reclinabile” e altre battute – Il Post – .

Anna Longhi, di spalle, scambiata per un’opera d’arte alla Biennale di Venezia del 1978 nell’episodio “Le vacanze intelligenti” (regia di Alberto Sordi) del film collettivo “Dove vai in vacanza”

Alberto Sordi alla Biennale di Venezia, Maurizio Cattelan ai Caraibi: l’arte contemporanea è stata presa in giro, ma spesso si prende gioco di se stessa

Il film ha fatto più danni alla reputazione della Biennale di Venezia Vacanze intelligenti dei peggiori Vandali e Visigoti. Quando Alberto Sordi trova una sedia in una sala del padiglione centrale dei Giardini, invita la moglie, la mitica Anna Longhi, ad aspettarlo seduta accanto ad una palma mentre lei va a comprare la birra tanto desiderata. Vedendola, un gruppo di amanti dell’arte contemporanea non può resistere all’analisi critica: «Sedia con scocca reclinabile: sembra una sfera che prima affonda verso il basso e poi si rialza lentamente come spinta dal vento che muove la palma». “Lo comprerei per diciotto milioni.” Quando Alberto Sordi ritorna senza la birra, la moglie esclama “e santa troia!” lei si svela e smaschera i sedicenti intellettuali.

Aldo, Giovanni e Giacomo hanno fatto più danni alla reputazione dell’arte contemporanea in pochi secondi di decenni di storici dell’arte conservatori e ostili. «Il mio falegname da trentamila lire fa meglio, non ha nemmeno i chiodi» dice Giovanni davanti a quella gamba di legno che ha dato il titolo al loro film più famoso: «Guarda, questo è un Garpez, uno dei più grandi viventi scultori». E sono sempre stati loro, questa volta a teatro, a prendersi gioco di chi come me, occupandosi di arte contemporanea, può sostenere che una sedia non è una sedia, ma un capolavoro del maestro Fistalloni, che esprime il concetto di “sedialità” elevando l’oggetto ha un valore universale. Dopo l’ennesima lezione di Giacomo sull’iperrealismo e la monocromaticità, Giovanni e Aldo si avvicinano ad un estintore inneggiando a un’opera riuscitissima, solo per sentirsi dire che quello era proprio l’estintore del museo.

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Anche se Alberto Sordi e Aldo, Giovanni e Giacomo si prendono gioco di un mondo che prendo molto sul serio perché è la mia vita e il mio lavoro, non posso fare a meno di ridere. L’arte non è per tutti come vogliamo far credere con l’insopportabile retorica della “bellezza che salverà il mondo”. Non lo dico con distacco e nemmeno, tanto meno, con alcun senso di superiorità. Rispetto semplicemente chi pensa che l’arte contemporanea sia spazzatura. Il vero problema è che non esiste comico che possa battere la realtà, in certi casi. L’arte contemporanea è esposta a scherzi, inganni e incomprensioni, e spesso si prende gioco di se stessa.

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Qualche mese fa la polizia di Londra ha ricevuto una telefonata che segnalava una donna svenuta su una scrivania oltre la finestra della galleria Laz Emporium in Lexington Street a Soho. Quando la polizia ha rotto la finestra, si è ritrovata davanti Kristina, un’opera iperrealista dell’artista Mark Jenkins. E ancora: al Museo Picasso di Parigi un’anziana signora ha visto una giacca appesa al muro. Lo prese pensando che qualcuno lo avesse dimenticato, lo portò a casa e addirittura lo orlò perché era troppo lungo. Si trattava di un’opera dell’artista Oriol Vilanova, che invitava il pubblico a interagire prendendo una delle cartoline riposte nelle tasche. Diciamo che più che un furto si è trattato di un eccesso di interazione. Se c’erano danni in questi casi, dieci anni fa Eron di Rimini esultava quando un muratore intonacava il suo disegno di un buco nel muro, dimostrando quanto fosse stato fatto bene.

Il duo di artisti Goldschmied & Chiari si è invece diviso in due dopo che una mattina un addetto alle pulizie del Museion di Bolzano ha gettato nella spazzatura una delle loro installazioni realizzate con bottiglie vuote: a uno è piaciuta molto, l’altro si è arrabbiato moltissimo (ma solo inizialmente e abbiamo vinto non dire chi ha reagito come). Quell’opera era – o meglio, è, perché poi rifatta e anche riproposta più volte – un nitido ritratto dell’Italia. Il suo titolo, Dove balleremo stasera?, è un riferimento al libro ormai quasi introvabile che Gianni De Michelis scrisse sulle discoteche italiane nel 1988, da vicepresidente del Consiglio dei ministri (la prefazione è di Gerry Scotti). De Michelis aveva una grande passione per la danza, che lo espose a diversi attacchi (Enzo Biagi lo definì “Avanzi di balera”). L’installazione di Goldschmied & Chiari ricordava l’edonismo degli anni ’80, la televisione di massa privata, la speculazione finanziaria, un Paese ben oltre le sue capacità di cui oggi restano le ingombranti macerie politiche e sociali. E forse basterebbe una brava impresa di pulizie per rimettere le cose in ordine.

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Ma non esistono solo “scherzi sugli artisti”, esistono anche “scherzi sugli artisti”: il mago di questo tipo di arte è il più noto artista italiano vivente, Maurizio Cattelan. Le sue battute potremmo citarle a decine, ma ci limitiamo a due: nel 1992, all’inizio della sua carriera, Cattelan istituì il premio Fondazione Oblomov, che assegnava 10mila dollari, raccolti da vari mecenati, a un artista disposto a rinunciare esponendo per un anno. Naturalmente Cattelan si è aggiudicato il premio: grazie ai suoi soldi si è trasferito a New York dove ha iniziato una carriera strepitosa. La Fondazione Oblomov, ovviamente, non esisteva: il riferimento era al protagonista dell’omonimo romanzo di Ivan Goncharov, di cui è nota la devastante pigrizia. In segno di ringraziamento, Cattelan affisse sul muro d’ingresso dell’Accademia di Brera una targa con i nomi dei donatori (anche quella era illegale, ci sarebbe voluto un anno prima che qualcuno se ne accorgesse e la togliesse).

Qualche anno dopo Cattelan organizzò la Sesta Biennale dei Caraibi. Ancora una volta ha raccolto soldi dagli sponsor, per poi spiegare che la sesta Biennale dei Caraibi (“sesta” per dare l’idea di uno “storico” che ovviamente non c’era) sarebbe stata una lunga vacanza pagata per lui e i suoi amici . Dietro queste opere non c’era solo una presa in giro di un sistema dell’arte debole e credulone, ma anche una performance artistica, giustamente pagata, per ricordare che “l’arte è una chiamata alla quale troppi rispondono senza essere chiamati” per dirla con Leo Longanesi ( chissà se lo disse davvero, ma quando c’è una bella citazione è attribuita a Longanesi o Flaiano), che tutta questa insurrezione di biennali, festival e premi stava compromettendo la qualità stessa dell’arte. So che ci sono molte persone che faticano a considerarle come azioni artistiche, ma credo che l’arte debba porsi delle domande, e Maurizio Cattelan in questo è un paladino.

Continuiamo con gli scherzi, questa volta involontari: nel 2017 l’artista indiano Anish Kapoor ha acquistato il brevetto del Vantablack, un pigmento nero capace di assorbire la luce al 99,965%, che cambia completamente la percezione degli oggetti. Su questo tema Kapoor lavora da sempre per dimostrare che tutto ciò che vediamo ha una pelle, una patina, ma che sotto c’è qualcos’altro. C’è il superficiale e c’è lo spirituale, c’è la mente e il corpo, la carne e l’anima delle cose. A metà degli anni ’90 le sue opere diventano monumentali: installazioni in cui utilizza acciaio e specchio, che riflettono il cielo, il paesaggio urbano, o le persone, nel tentativo di modificare lo spazio circostante, di aprire un varco verso un mondo nuovo, sottosopra. giù. Ma torniamo al nero più nero che ci sia: nel 2018, per una delle sue mostre in Portogallo, Kapoor ha riempito con quel pigmento un buco profondo due metri e mezzo. Anche una voragine, se ricoperta con Vantablack, scompare. Sembra un timbro applicato sulla superficie. E infatti un visitatore, pensando ad un trucco, ha fatto un passo di troppo ed è caduto rovinosamente nella buca. Ovviamente era italiano.

Un altro esempio di come la percezione possa ingannare i sensi è la triste storia dell’artista Nathwell Tate, noto come Nat. Rimasto presto orfano, fu adottato da una famiglia ricca dove non visse bene. Da ragazzo si appassiona al disegno e inizia la sua serie più famosa, la serie Bridge ispirata al poeta americano Hart Crane. Il mondo dell’arte lo notò quasi subito e Tate si guadagnò il rispetto e l’amicizia di giganti come Pablo Picasso, Georges Braque, Yves Klein. Fu influenzato dall’espressionismo astratto, ma il suo stile potente ed enigmatico stregò la capitale dell’arte mondiale, New York. Nei primissimi giorni del 1960 però, devastato dall’alcolismo e dalla depressione, Nat Tate fece il giro di tutti i suoi collezionisti per chiedere la restituzione dei suoi quadri che avevano acquistato con la scusa di doverli restaurare o apportare qualche modifica. L’8 gennaio, con l’aiuto del figlio dodicenne, bruciò tutta la sua produzione. L’ultimo a parlargli, il 12 gennaio, è stato l’uomo che gli ha venduto il biglietto per il traghetto di Staten Island, perché a metà strada tra la Statua della Libertà e l’Oceano Militare Nat Tate si è buttato nelle acque tra l’Hudson e l’East River . Aveva 31 anni e il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato.

Per fortuna, nel 1998, a sessant’anni dalla sua nascita, lo scrittore William Boyd è riuscito a rimettere insieme alcuni dei suoi disegni e a presentarli al mondo pubblicando un libro sulla vita di Tate con 21 Publishing, la casa editrice di David Bowie, un grande ammiratore della Tate (qui la traduzione italiana). Per la presentazione tutto il mondo intellettuale newyorkese si è riunito nello studio di Jeff Koons: John Richardson, biografo di Picasso, ha parlato dell’amicizia tra i due artisti; Gore Vidal, che aveva conosciuto molto bene Tate, ne ripercorse gli aspetti più personali; David Bowie ha letto con emozione alcune canzoni, dichiarando il suo amore per un artista che ammirava fin da ragazzo. Dopotutto, chi non ammirava il grande Nat Tate in quella stanza? Chi non segue da sempre il suo lavoro e non è stato grato a Boyd per quel lavoro di ricerca e restituzione? Chi non ha approfittato di quella festa dell’1 aprile 1998 per parlare del proprio rapporto personale con Tate, di averlo incontrato una volta, anche se fugacemente, o di quando ha sentito parlare di lui per la prima volta? Nessuno aveva prestato attenzione alla data e nessuno aveva avuto il minimo sospetto. Era il quotidiano Indipendente, pochi giorni dopo quella festa da sogno, spiegando che Boyd, Bowie, Richardson e Vidal si erano presi gioco dell’intero mondo artistico newyorkese. Nat Tate non era mai esistito, ma nessuno in quella stanza avrebbe ammesso di non aver mai sentito parlare di lui.

Questa grande lezione al mondo dell’arte, purtroppo, non è servita a molto: molti, ancora troppi, fingono di averne la maestria anche quando non hanno idea di cosa stanno parlando. La morale? Non c’è. L’arte non ha mai una morale e non gli importa se chi la guarda conosce o meno il nome dell’autore. C’è posto per tutti, anche per chi non c’è: Fistalloni e Garpez sono artisti davvero rinomati.

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Nicola Ballario

Nato nel 1984, si occupa di arte contemporanea applicata ai media. La sua culla professionale è nella fabbrica “La Sterpaia” di Oliviero Toscani, di cui diventerà responsabile culturale. Ha collaborato con le più importanti istituzioni artistiche e numerose testate giornalistiche. Attualmente è autore e conduttore di programmi di arte contemporanea su Radio Uno Rai e collabora con L’Espresso, Vita del Corriere della sera e Il diario dell’arte. Nel 2019 dirige il format fotografia Stanza buiasu LA7, mentre dal 2020 conduce il magazine televisivo sulla cultura contemporanea La piazzasu SkyArte.

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