“Colpo di grazia per la formazione medica” – .

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Verona, 24 aprile. (Adnkronos Salute) – “Risolvere il problema dell’anemia e avere meno pazienti affetti da mielofibrosi trasfusioni-dipendenti potrebbe sicuramente avere un impatto importante sulla loro qualità e quantità di vita, perché il paziente trasfusionale-indipendente vive più a lungo e meglio” e questo” è un fatto estremamente importante”. Lo ha affermato Francesco Passamonti, professore ordinario di Ematologia dell’Università degli Studi di Milano e direttore della Struttura Complessa del Dipartimento di Oncologia e Oncoematologia del Policlinico di Milano, intervenendo questa mattina a Verona in un incontro con i giornalisti organizzato da GSK, in cui è intervenuto il sono state presentate le ultime innovazioni terapeutiche per il trattamento di questa neoplasia del midollo osseo caratterizzata dalla proliferazione anomala di globuli rossi e dall’accumulo di tessuto fibroso.

“I principali problemi del paziente affetto da mielofibrosi sono la splenomegalia”, l’ingrossamento della milza, “la presenza di sintomi sistemici e l’anemia o trombocitopenia – spiega Passamonti – I farmaci attualmente utilizzati per il trattamento della mielofibrosi, gli inibitori di Jak ruxolitinib e fedratinib, approvati in Italia e rimborsati per ruxolitinib di prima linea e per federatinib di prima e seconda linea, riducono la splenomegalia e migliorano i sintomi sistemici, ma possono anche peggiorare l’anemia. Recentemente ha ricevuto l’approvazione, sempre in Europa, un nuovo inibitore del Jak, “momelotinib, per il paziente con mielofibrosi anemica perché questa molecola ha dimostrato di migliorare non solo la splenomegalia, ma anche l’anemia”.

“Chiediamo alle nuove molecole per la cura della mielofibrosi – spiega il professore – di affrontare anche il problema dell’anemia, perché il 20% di questi pazienti necessita di trasfusioni e deve recarsi in ospedale inizialmente una volta al mese, poi ogni 3 settimane, poi ogni 2 , ogni una e anche 2 volte a settimana, perché ovviamente col tempo c’è un minimo di refrattarietà alle trasfusioni e, soprattutto, la malattia progredisce”. Quando accede all’ospedale, il paziente spesso deve “essere accompagnato da una badante”, il che comporta una “perdita di giornate lavorative per entrambi e un impatto sociale estremamente importante”. Inoltre, a livello clinico, «c’è soprattutto un accumulo di ferro nel cuore, nei reni, nel fegato. Ciò non causa problemi in 6 mesi, ma in anni. Quindi un’anemia cronica trasfusione-dipendente può presentare una serie di problemi”.

“La mielofibrosi, che si può definire rara data l’incidenza di 1,2-1,4 nuovi casi su 100mila abitanti/anno – continua Passamonti – presenta aspetti che chiamiamo mielopoliferativi come la leucocitosi, la splenomegalia, la presenza di sintomi sistemici come febbre, sudorazione e perdita di peso e, in molti pazienti, si accompagna anche agli effetti della citopenia, cioè dell’anemia e della trombocitopenia, che rappresentano ‘bisogni medici non soddisfatti’, cioè ambiti in cui oggi non abbiamo terapie”. Certo, “la fisiopatologia della mielofibrosi non è del tutto definita – aggiunge lo specialista – ma comporta l’attivazione di una via cellulare, la via Jak-Stat, che svolge un ruolo essenziale perché coinvolta nelle funzioni metaboliche, immunitarie e nell’emopoiesi. . Dal 2005 in poi abbiamo capito anche la patogenesi di questa malattia”, che nell’85% dei casi presenta mutazioni in almeno uno dei 3 geni: Jak2 (prevalenza 50-60%); Mpl (prevalenza 5-9%); Calr (prevalenza 20-35%). “Quando il gene Jak2 è iperattivo, viene attivata la produzione di globuli bianchi, emoglobina e piastrine”.

I farmaci inibitori di Jak “sono in grado di rallentare la via, la via cellulare Jak-Stat, iperattivata dai geni Jak2, Mpl e Carl. Ovviamente tutte queste molecole Jak-inibitrici, agendo su Jak-Stat, possono migliorare la splenomegalia e i sintomi sistemici, ma anche causare anemia e trombocitopenia”. È stato dimostrato che momelotinib migliora anche l’anemia. Il farmaco, infatti – è stato ricordato nel corso dell’evento – oltre a inibire Jak1 e Jak2 inibisce anche un altro bersaglio (Acvr1), riducendo di fatto la produzione di epcidina, ripristinando l’omeostasi del ferro e aumentando i livelli di emoglobina, migliorando sintomi costituzionali, splenomegalia e citopenie. ”.

Gli inibitori di Jak “non rappresentano l’unica opzione terapeutica di cui disponiamo nella mielofibrosi – conclude l’ematologo – Il trapianto allogenico di midollo osseo è l’unica procedura che abbiamo oggi per curare, ma può essere indicata nel 10-15% dei pazienti ed è una procedura altamente procedura pericolosa per la vita.

 
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